Da Genova a Gaza per “restare umani”

Caritas Genova e l’educazione al pensiero non violento

Come noto, nella settimana appena trascorsa, Caritas Diocesana di Genova, rappresentando la posizione della chiesa genovese, ha voluto esprimere la sua fattiva vicinanza alla Global Sumud Flotilla che, con la sua iniziativa, si propone di portare aiuti umanitari ai civili della Striscia di Gaza aprendo l’assedio navale di Israele. Abbiamo quindi provveduto ad acquistare circa una tonnellata di alimenti, tra quelli indicati, e li abbiamo consegnati all’organizzazione umanitaria genovese Music for Peace, che insieme al CALP, Collettivo Autonomo Lavoratori Portuali, ha promosso e coordinato la raccolta.
Più di 300 le tonnellate totali, ben oltre le 40 richieste, frutto di una risposta straordinaria, diffusa, trasversale dei genovesi: persone, comunità, enti, istituzioni.
Mentre scrivo, dopo aver accompagnato il carico con la fiaccolata di sabato 30 agosto a cui hanno partecipato tra le 40 e le 50 mila persone, le imbarcazioni sono salpate dal nostro porto, con a bordo anche Stefano Rebora, presidente di Music for Peace, e José Nivoi, portavoce del CALP.
Giunte in Sicilia, si uniranno ad una piccola flotta di decine di imbarcazioni di pace, provenienti anche dalla Spagna e della Tunisia, ognuna con un carico di una tonnellata circa di aiuti, che in due ondate, tra il 31 e il 4 settembre, salpano verso la Striscia.
Sono giorni delicati, non privi di rischi, per il blocco della marina militare israeliana che rende incerto l’obiettivo finale: creare un corridoio umanitario che consenta di rifornire la popolazione della Striscia di beni di prima necessità, interrompere la strada della catastrofe umanitaria che ormai si è intrapresa, riaprire uno spazio di dialogo per liberare gli ostaggi ancora prigionieri.
Far giungere gli aiuti a destinazione è un risultato complesso, forse non realizzabile ma non meno urgente, vitale e indispensabile, per affermare con assoluta chiarezza che non è più accettabile (e non lo è mai stato) risolvere i conflitti con atti miserabili di terrorismo e prigionia da una parte e, dall’altra, con una terribile guerra di distruzione e di fame che annienta un popolo.
Lo ha scritto Caritas Internationalis, il 25 agosto scorso, con una nettezza forse ineguagliata in questa circostanza: «Questa non è guerra, è annientamento! (…) Tutte le persone di fede e coscienza facciano sentire la propria voce, esercitino pressione sui governi e invochino giustizia».
E, il 26 agosto, in una dichiarazione congiunta ripresa da papa Leone, il Patriarca Greco Ortodosso di Gerusalemme Teofilo III e quello Latino di Gerusalemme Card. Pizzaballa ci hanno ricordato che «non può esserci futuro basato sulla prigionia, lo sfollamento dei palestinesi o la vendetta. (…) Non è questa la giusta via. Non vi è alcuna ragione che giustifichi lo sfollamento deliberato e forzato di civili e non vi è alcuna ragione che giustifichi tenere dei civili prigionieri o ostaggi in condizioni drammatiche. È ora che le famiglie di tutte le parti in causa, che hanno sofferto a lungo, possano avviare percorsi di guarigione. Con uguale urgenza, facciamo appello alla comunità internazionale affinché agisca per porre fine a questa guerra insensata e distruttiva, e affinché le persone scomparse e gli ostaggi israeliani possano tornare a casa».
Come più volte chiesto da Stefano Rebora, anche noi come altri continueremo a seguire questa missione, per tenere la luce accesa, far sentire a chi è in mare la partecipazione di una comunità cittadina davvero ampia, essere un occhio vigile e una voce critica.
Don Gianni Grondona, vicario episcopale per la comunione ecclesiale e la sinodalità, che ha impartito la benedizione alla missione in partenza, ha dichiarato a Repubblica che “è stato il nostro vescovo padre Marco in persona a sollecitarci ad essere presenti, ci ha detto che non possiamo accettare questo silenzio assordante”.


Non possiamo assistere in silenzio a queste atrocità! Si tratta di alzare la voce della pace e compiere azioni di giustizia: chi su una barca, con coraggio nonviolento e coscienza netta; chi da Genova, città che ha saputo dimostrare, ancora una volta nella sua storia e nella sua quotidianità, da che parte vuole stare.
Dalla parte di chi costruisce esperienze di pace, società di pace. Le guerre (in Ucraina, in Palestina, in Sudan e in oltre 50 scenari nel mondo) e la violenza armata (come in Congo RD, Sud Sudan, Haiti, dove governano soprusi e miseria senza neppure il beneficio del clamore mediatico mondiale) sono frutto di una suddivisione del mondo in paesi e vite umane di serie A e di serie B. Non è la nostra visione, non è la visione del Vangelo, siamo tutti fratelli e sorelle e questa condizione non può essere mai messa in discussione. Riarmarsi, preparare gli eserciti, minacciare la guerra nucleare non è deterrenza né garanzia di pace.
“Se vuoi la pace, prepara istituzioni di pace”, ha ribadito papa Leone.
Bisogna ridare credito e corpo al pensiero nonviolento e obiettore alla guerra.
A Genova ne abbiamo avuto grande e lunga testimonianza da fine anni ‘70, con i ragazzi obiettori al servizio militare e le ragazze dell’Anno di Volontariato Sociale: no alle armi, servizio alla persona, stili di vita comunitari. Una testimonianza feconda che, in quei giovani diventati adulti maturi, intesse oggi molti settori della nostra città e della comunità ecclesiale. Caritas Italiana e la nostra Caritas diocesana diedero credito, accoglienza e futuro a quella scelta anche quando una parte stessa della chiesa non la comprendeva.
E sempre Genova ha memoria di quando, nel 1989, ottenne la fine della Mostra Navale Bellica, dopo anni di campagne e proteste tenaci, sempre più ampie e condivise in città. Quanto bisogno ci sia oggi di riattivare quel pensiero e quella determinazione è sotto gli occhi di tutti. E la risposta dei genovesi alla raccolta per la fame di Gaza vive dello stesso spirito.
Non lasciamolo morire. Non lasciamoli morire.