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Ecuador: uccisi i tre giornalisti rapiti

Il cordoglio di Papa Francesco. La preoccupazione di chi opera quotidianamente alla frontiera

Ecuador: uccisi i tre giornalisti rapiti

Un intero Paese sotto choc: così si presenta l’Ecuador a meno di tre giorni dall’accertamento della morte dei tre giornalisti di cui non si avevano notizie dallo scorso 26 marzo, cioè dal giorno del loro rapimento avvenuto nella regione di Esmeraldas, ai confini con la Colombia. Si tratta di Javier Ortega (32 anni, inviato di El Comercio), Paúl Rivas (45 anni, fotografo) e Efraín Segarras (60 anni, autista). La frontiera tra i due Paesi è uno dei punti strategici del traffico di cocaina e proprio su quanto sta accadendo in quella zona avevano puntato l’attenzione i giornalisti. Non è un gesto isolato. Dall’inizio dell’anno è stata un’escalation di fatti violenti, attribuiti a gruppi dissidenti delle Farc, l’ex guerriglia colombiana ufficialmente smobilitata dopo gli accordi di pace di fine 2016.

“E’ un momento di dolore e profonda preoccupazione”. Così i vescovi dell’Ecuador, si sono riferiti, praticamente “in diretta” alla tragica notizia. Papa Francesco a far sentire la sua voce, dopo il Regina Coeli: “Con dolore ho ricevuto la notizia dell’uccisione dei tre uomini rapiti dalla fine di marzo al confine tra Ecuador e Colombia. Prego per loro e per i loro familiari, e sono vicino al caro popolo ecuadoriano, incoraggiandolo ad andare avanti unito e pacifico, con l’aiuto del Signore e della sua Santissima Madre”. Un appello a cui invita a unirsi mons. Luis Cabrera Herrera, arcivescovo di Guayaquil e vicepresidente della Conferenza episcopale ecuadoriana: “Gesù – scrive in una nota – ci offre la sua pace, però non come risultato dell’imposizione delle armi né della compravendita della coscienza, della libertà o della dignità. La sua pace sgorga dal sentirci amati e perdonati da lui”.

I vescovi rivolgono un appello “ai governi dell’Ecuador e della Colombia, per creare o consolidare condizioni di vita più degne, fraterne e giuste, soprattutto nella zona di confine, sviluppando opportunità di lavoro e politiche di benessere sociale, e rafforzando al tempo stesso i sistemi di sicurezza”.

Un messaggio che trova conferma nelle affermazioni di chi opera quotidianamente alla frontiera. Come Fernando López, direttore del Servizio gesuita ai rifugiati (Sjr), che spiega al Sir: “Si tratta di una situazione dolorosa e nuova per l’Ecuador, violenta e assurda. Io sono colombiano, ma vivo da molto tempo in Ecuador. In quanto sto accadendo vedo continuità con la situazione colombiana degli ultimi decenni, ma certe cose qui accadono per la prima volta”. Ciò nonostante il direttore del Sjr spiega che la situazione, anche se inedita, viene da lontano: “La frontiera tra i due Paesi è molto permeabile, negli anni della guerra colombiana 250mila persone si sono rifugiate qui. E già da tempo sono entrate anche persone legate alla guerriglia”. Dall’altra parte, “è il risultato di un abbandono grande di questo angolo di Paese, al quale stiamo assistendo. Così il territorio è in mano alle rotte del narcotraffico, del commercio di armi, della tratta.

Oltre il confine, in Colombia, lo Stato è praticamente assente. E qui in Ecuador il nuovo Governo non ha dato continuità a qualche progetto che era stato intrapreso”. Insomma, “quella militare non può essere l’unica risposta, lo Stato deve essere presente in maniera integrale”.

Una voce, molto preoccupata, arriva anche dalla vicina Colombia. E’ quella di mons. Orlando Olave Villanoba, vescovo di Tumaco, città del dipartimento di Nariño quasi ai confini con l’Ecuador, dove nei mesi scorsi sono stati uccisi diversi leader sociali: “La firma dell’accordo di pace è stata molto importante per la Colombia, ma a Tumaco la pace non è mai arrivata – dice quasi sulla scaletta dell’aereo che lo sta per riportare in Sudamerica dopo un pellegrinaggio in Terrasanta e a Santiago de Compostela -. In questi giorni ho seguito solo indirettamente la vicenda dei tre giornalisti. Ma in generale posso dire che i gruppi dissidenti delle Farc controllano la produzione e il traffico della cocaina. In particolare sono tre gruppi a contendersi il mercato della droga. L’Ecuador è appena al di là del fiume, in pratica la frontiera non esiste. Come Chiesa cerchiamo di impegnarci al massimo”, in una zona “lontana dalle città, dove mancano scuole, ospedali, possibilità di sviluppo”.

Estratto da articolo di Bruno Desidera

Fonte: Sir
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