L’angelo mi mostrò la città santa che scende dal cielo
L'angelo mi mostrò la città santa che scende dal cielo VI Domenica di Pasqua (anno C)
L’angelo mi trasportò in spirito su di un monte grande e alto, e mi mostrò la città santa, Gerusalemme, che scende dal cielo, da Dio, risplendente della gloria di Dio. Il suo splendore è simile a quello di una gemma preziosissima, come pietra di diaspro cristallino. È cinta da grandi e alte mura con dodici porte: sopra queste porte stanno dodici angeli e nomi scritti, i nomi delle dodici tribù dei figli d’Israele. A oriente tre porte, a settentrione tre porte, a mezzogiorno tre porte e a occidente tre porte. Le mura della città poggiano su dodici basamenti, sopra i quali sono i dodici nomi dei dodici apostoli dell’Agnello.
In essa non vidi alcun tempio: il Signore Dio, l’Onnipotente, e l’Agnello
sono il suo tempio. La città non ha bisogno della luce del sole,
né della luce della luna:
la gloria di Dio la illumina
e la sua lampada è l’Agnello.
Giovanni fruisce della visione della “Gerusalemme celeste”, ossia della Chiesa, la quale nell’eternità, partecipa della visione beatifica di Dio.
Con espressioni fantasiose, prese anche, in parte, dagli antichi profeti, Isaia e Ezechiele, la Chiesa celeste è presentata in tutto il suo ineffabile splendore. I vari elementi simbolici – le mura, le porte, i nomi della tribù d’Israele, gli angeli, i basamenti – indicano che nella Gerusalemme celeste sopravvive, rinnovato, l’antico Israele. Così alle dodici tribù sono stati sostituiti, quale fondamento, i nuovi dodici patriarchi del nuovo Israele: gli Apostoli, gli inviati dell’Agnello, di Cristo. Così il tempio materiale non ha più ragion d’essere, perché tutto è soprannaturale, immateriale; perché il tempio è Dio stesso.
Tutto è illuminato da una nuova luce, una luce divina, costituita dalla presenza di Dio – “la gloria di Dio” – e dell’Agnello, attraverso il quale passa la luce di Dio: ossia la sua vita soprannaturale partecipata ai redenti.