La parola
stampa

25a domenica del Tempo Ordinario - anno A, Mt 20,1-16

Sei invidioso perché io sono buono?

Nella parabola proposta alla nostra riflessione, appare con chiarezza uno scarto, un'eccedenza dei pensieri e delle vie di Dio, rispetto alle nostre vie e ai nostri pensieri (cfr. Is 55,9): come spesso accade, il punto di partenza del racconto è una scena familiare per i contemporanei di Gesù, una piazza dove si raccolgono gruppi di uomini che attendono di essere presi a giornata per qualche lavoro. In questo caso un padrone di casa esce a più riprese, in diverse ore del giorno, dall'alba fino al pomeriggio inoltrato, e offre un lavoro nella sua vigna.

Sei invidioso perché io sono buono?

Nella parabola proposta alla nostra riflessione, appare con chiarezza uno scarto, un'eccedenza dei pensieri e delle vie di Dio, rispetto alle nostre vie e ai nostri pensieri (cfr. Is 55,9): come spesso accade, il punto di partenza del racconto è una scena familiare per i contemporanei di Gesù, una piazza dove si raccolgono gruppi di uomini che attendono di essere presi a giornata per qualche lavoro. In questo caso un padrone di casa esce a più riprese, in diverse ore del giorno, dall'alba fino al pomeriggio inoltrato, e offre un lavoro nella sua vigna. Solo con i primi fissa una paga, un denaro al giorno, agli altri si limita a promettere una giusta remunerazione. Fin qui tutto normale, a parte lo strano comportamento del padrone che sembra non darsi pace nel vedere uomini disoccupati e impigriti, e assolda operai anche quando resta ben poco tempo per il lavoro; tuttavia la vera svolta nella narrazione accade nel finale, quando gli operai si presentano dal fattore, a fine lavoro, e, primo tratto sorprendente, il padrone dispone che i primi ad essere pagati siano gli ultimi, quelli che avevano ormai ben poche speranze di lavoro. Ad essi viene dato un denaro, esattamente come ai primi: e a questo punto si fa strada il disappunto che diventa sorda mormorazione contro il padrone. Notiamo bene che in gioco non c'è un'astratta giustizia, il padrone non infrange l'impegno preso, dà quello che aveva pattuito, ma è come se affermasse una misura più grande, per cui guarda agli ultimi come se fossero i primi. Nelle sue parole di risposta, traspare la libertà misericordiosa, ma non arbitraria di Dio, che chiama in diversi momenti alla sua opera, e vuole far grazia anche agli ultimi arrivati: 'Amico, io non ti faccio torto. Non hai forse concordato con me per un denaro? Prendi il tuo e vattene. Ma io voglio dare anche a quest'ultimo quanto a te: non posso fare delle mie cose e quello che voglio? Oppure tu sei invidioso (letteralmente: hai l'occhio cattivo) perché io sono buono?'. Per due volte torna il verbo 'voglio' che esprime la decisione libera e gratuita di Dio, che va oltre la misura di una prestazione concordata, e emerge la meschinità dei primi, che alla fine sono mossi da invidia, da risentimento, che sono accecati dalla grettezza del loro cuore e non vedono il volto misericordioso di Dio, né guardano ai loro compagni di lavoro come fratelli. Ora, a chi si rivolge questa parabola così provocante? È probabile che nella predicazione originaria di Gesù, fossero stigmatizzati i giusti, gli scribi, i dottori della Legge, i tanti farisei che provavano fastidio e scandalo per il comportamento di Cristo verso i peccatori, i pubblicani, gli impuri: come il fratello maggiore della parabola lucana del padre misericordioso (Lc 15,11-32), che si adira per la festa finale, voluta dal padre per il fratello minore, ritornato a casa, così questi uomini devoti e osservanti applicavano una stretta giustizia, e in fondo rischiavano di ridurre il rapporto con Dio e con l'Alleanza ad una prestazione, da misurare, da pesare, una prestazione talvolta faticosa, come sopportare 'il peso della giornata e il caldo'. Gli ultimi chiamati, gli operai dell'undicesima ora, sono proprio i figli d'Israele, ai margini del popolo, i quali, in modo totalmente insperato, trovano in Gesù qualcuno che li guarda, che li chiama, che li invita nella sua vigna. Ma è evidente che una tale situazione può ben verificarsi ora, nella comunità cristiana, perché è sempre possibile ridurre la vita di fede a qualcosa di pesante, all'adempimento formale di riti e doveri, senza cuore, senza la bellezza di un'affezione al Signore, che rende leggero e soave anche la fatica quotidiana della fedeltà: 'Ubi amor, non est labor' (S. Bernardo), dove c'è amore, non c'è fatica. Quando non si vive la freschezza di un tale rapporto, riconoscendo che in fondo siamo tutti chiamati per pura grazia, allora si dà spazio all'invidia, alle piccole gelosie e meschinità, allora si fa strada la mormorazione, che, come un cancro, avvelena la vita di una comunità. Proprio ritrovare lo stupore e la gratitudine di una chiamata che libera la vita del vuoto e dall'insensatezza, ci permette di allargare il cuore e d'imparare la magnanimità del Padre.

Sei invidioso perché io sono buono?
  • Attualmente 0 su 5 Stelle.
  • 1
  • 2
  • 3
  • 4
  • 5
Votazione: 0/5 (0 somma dei voti)

Grazie per il tuo voto!

Hai già votato per questa pagina, puoi votarla solo una volta!

Il tuo voto è cambiato, grazie mille!

Log in o crea un account per votare questa pagina.

Non sei abilitato all'invio del commento.

Effettua il Login per poter inviare un commento