La parola
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33° domenica del Tempo Ordinario - anno A, Mt 25,14 -30

Sei stato fedele... prendi parte alla gioia del tuo padrone

In queste ultime domeniche dell'anno liturgico, ascoltiamo due grandi parabole, raccolte nel capitolo 25° di Matteo: quella dei talenti (25,14-30) e l'affresco del giudizio finale (25,31-46). In realtà anche la precedente parabola, quella delle vergini sagge e stolte (Mt 25,1-13), può essere ricondotta ad un comune orientamento, in quanto l'evangelista, dopo il grande discorso escatologico (Mt 24), mette a tema come vivere, in modo sapiente e fruttuoso, questo tempo di attesa vigilante, senza sprecare l'esistenza presente.

Sei stato fedele... prendi parte alla gioia del tuo  padrone

In queste ultime domeniche dell'anno liturgico, ascoltiamo due grandi parabole, raccolte nel capitolo 25° di Matteo: quella dei talenti (25,14-30) e l'affresco del giudizio finale (25,31-46). In realtà anche la precedente parabola, quella delle vergini sagge e stolte (Mt 25,1-13), può essere ricondotta ad un comune orientamento, in quanto l'evangelista, dopo il grande discorso escatologico (Mt 24), mette a tema come vivere, in modo sapiente e fruttuoso, questo tempo di attesa vigilante, senza sprecare l'esistenza presente. Nel passo offerto alla nostra meditazione, si configurano due atteggiamenti diversi di fronte a questo padrone che consegna i suoi beni, affidando delle notevoli quantità di denaro, nella forma dei talenti: da una parte, i primi due servi, che ricevono rispettivamente cinque e due talenti, li fanno fruttificare, raddoppiandoli e al ritorno del padrone sono riconosciuti come servi buoni e fedeli, e come tali, possono prendere parte alla gioia del loro signore; dall'altra parte vi è l'ultimo servo, a cui è consegnato un talento, e che si limita a riconsegnarlo, senza averlo messo a frutto, così da essere punito e privato dell'unico suo possesso. Ora dietro le immagini della parabola, s'intravede chiaramente il destino ultimo, radicalmente differente, che si apre all'uomo, a seconda di come impiega i doni di Dio; quei talenti possono essere interpretati in varie maniere, possono indicare tutto ciò che siamo e che abbiamo, come dono originale di Dio, ma possono anche alludere alle realtà del Regno, offerte in Gesù stesso. Quello che è decisivo è il desiderio implicito del padrone che i suoi servi non si limitino a custodire i talenti, ma ne possano godere, facendoli fruttificare, e proprio la riuscita della loro opera, con un risultato differente a misura del dono ricevuto, sembra essere una pregustazione iniziale, un anticipo di quella gioia preparata per loro. Ovviamente trafficare del denaro vuol dire rischiare, non avere paura dell'imprevisto, saper mettere in movimento la propria libertà ed ingegno: tutto questo non va inteso come esaltazione dei successi economici, ma come la fecondità di una vita, dove, nel poco e nel tanto, l'uomo riconosce i doni e ne sa usare per un di più di umanità e di bene. Il Dio annunciato e testimoniato da Cristo è un Dio amico degli uomini, che non teme la loro 'concorrenza', non guarda con sospetto le loro opere, ma desidera che la vita, ricolma dei suoi doni, abbia a portare frutto, già nel tempo, in attesa della gioia totale che il Signore prepara per i suoi figli e amici nel Regno. Ma, per poter gustare questa pienezza, per poter sperimentare questa fecondità, occorre scoprire il volto vero di Dio in Gesù, occorre vincere meschinità, grettezza e paure che chiudono il cuore, e si accontentano solo di mantenere e conservare ciò che abbiamo: senza il rischio della libertà e della fede, senza una fiducia profonda in Dio e nelle sue vie, si rimane come paralizzati e incerti. Così comprendiamo l'errore fatale dell'ultimo servo, che nella sua piccineria desta quasi compassione; in fondo ha capito ben poco del suo padrone, ha avuto paura, ritenendolo duro e spietato e nella risposta del padrone c'è un'amara ironia: se proprio immaginava una tale durezza, avrebbe potuto affidare il suo talento ai banchieri, con la prospettiva di un guadagno, magari non elevato, ma abbastanza sicuro e meno rischioso di un'intrapresa personale. Ecco la ragione del fallimento completo della sua esistenza: una paura che lo ha chiuso in se stesso, un'incapacità di rischiare, tutto preoccupato solo di non perdere il dono avuto, e sullo sfondo un cuore senza fiducia, in difesa di fronte alla vita e di fronte a Dio, tanto da perdere anche quel poco che ha. Perché ciò che l'uomo afferra e tiene ben stretto, senza la disponibilità a mettersi in gioco, fino al rischio di una perdita, alla fine si perde, perché comunque 'nulla abbiamo portato in questo mondo e nulla possiamo portarne via' (1Tim 6,6); invece, un'esistenza che sa riconoscere i doni e li sa impiegare, senza paura, senza un soffocante desiderio di possesso, una vita vissuta nella certezza fiduciosa di un Mistero buono e paterno, è destinata ad essere feconda e carica di frutti, nel tempo e nell'eternità.

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