La parola
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Tu lo dici: io sono Re

Cristo Re dell’universo (domenica 25 novembre)

In quel tempo, Pilato disse a Gesù: «Sei tu il re dei Giudei?». Gesù rispose: «Dici questo da te, oppure altri ti hanno parlato di me?». Pilato disse: «Sono forse io Giudeo? La tua gente e i capi dei sacerdoti ti hanno consegnato a me. Che cosa hai fatto?».

Rispose Gesù: «Il mio regno non è di questo mondo; se il mio regno fosse di questo mondo, i miei servitori avrebbero combattuto perché non fossi consegnato ai Giudei; ma il mio regno non è di quaggiù».

Allora Pilato gli disse: «Dunque tu sei re?». Rispose Gesù: «Tu lo dici: io sono re. Per questo io sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per dare testimonianza alla verità. Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce». 

Al tramonto dell’anno liturgico, in richiamo al tramonto della storia umana, viene portata attenzione a colui che ne ha la signoria, la regalità.

Dio ha promesso l’instaurazione di un regno universale ed eterno ad opera di “un figlio di uomo” investito di potere regale.

Il Re dalle prerogative divine e redentrici è Cristo, il quale manda ad effetto il regno voluto da Dio. Ed è, perciò, anche giudice.

Il suo regno ha finalità assolutamente spirituale, ultraterrena, al di sopra di ogni schema mondano.

Suoi sudditi sono coloro che lo ascoltano. 

Pilato, Procuratore dell’imperatore Tiberio, per il territorio della Giudea (dal 26 al 36 d. C.) ha di fronte, in pretorio, Gesù, il quale, ai suoi occhi, non è che un ebreo, accusato davanti al tribunale romano proprio da altri ebrei: un avvenimento piuttosto insolito, perché gli israeliti non vogliono riconoscere e mal sopportano la colonizzazione romana. L’accusa è basata sull’equivoco del titolo “Re dei Giudei” che per gli avversari di Gesù ha valore messianico, ma con valenza politico-militare, comprendente quindi anche la liberazione dall’invasore romano. Ma Gesù ha deluso le aspettative mentre per i Romani “Re dei Giudei” equivale ad usurpatore, ad antagonista dell’Imperatore, ignorando ogni accezione religiosa. Pilato inizia l’interrogatorio, chiedendo conto, appunto di tale titolo: “tu sei il re dei Giudei?”. Protagonista – paradossalmente, date le circostanze – è l’imputato, il quale inquisisce a sua volta il giudice: “dici questo da te”, per tua convinzione di dubbio o ti rifai acriticamente a quanto “altri hanno detto sul mio conto?”.

Pilato, spiazzato, si inalbera e tuttavia cerca scusante: “sono io forse giudeo?”. Ammesso, dunque, che il processo è in corso solo per denuncia di altri ebrei – rilievo sottilmente beffardo verso gli accusatori – Pilato, intenzionato a stringere i tempi e a togliersi d’impaccio, pone la¬ domanda più ovvia: “che cosa hai fatto?”. Gesù non risponde direttamente, ma spiega e rassicura chi teme egli possa essere un rivoluzionario politico: “il mio regno non è di questo mondo”. Il “mondo” di cui egli parla, nella concezione ricorrente dell’evangelista, è la convivenza umana, terrena, ma anche un ordinamento inquinato dal peccato, dalla prepotenza, dalla violenza. Il “regno” di Gesù, dunque, non è terrestre e neppure riconducibile ai criteri della potenza terrena. Questa infatti si affida alla forza. Non così Gesù: ne è prova il fatto che i suoi supposti sudditi “avrebbero combattuto, perché non fosse consegnato ai Giudei”. Ciò non è avvenuto perché il suo “regno non è di quaggiù”.

“Dunque tu sei re?” – incalza il Procuratore romano. Il pronome “tu” in greco, in fondo alla frase, accentua la meraviglia sorniona di Ponzio: “Proprio tu saresti re? E che specie di re è quello che non è sorretto da legioni; e da quando in qua un regno non è di questo mondo? Di quale altro mondo si può essere re e che vale esserlo?” (S. Garofalo). La dichiarazione di Gesù è inequivocabile: “io sono re”. L’assenza di articolo (non dice “il re” oppure “un re”) dimostra che la sua regalità è connaturale alla sua persona e ha nulla di politico. Una regalità singolare, che costituisce lo scopo per cui egli è “nato e venuto nel mondo”: la testimonianza alla verità.  La “verità”, nel Vangelo di Giovanni, designa la realtà dell’amore divino, in quanto si rivela e può essere compreso dall’uomo, il quale ne fruisce per l’impostazione della propria esistenza. La missione di Gesù, per il suo “regno” è di “rendere testimonianza alla verità”, rivelando nella sua persona e nella sua opera l’amore di Dio verso l’uomo e la giusta risposta che l’uomo deve dare. Allora “chiunque è dalla verità”, cioè chiunque voglia accogliere la manifestazione della realtà divina, “ascolta” la voce di Gesù.  Così egli designa pure i sudditi del suo regno non terreno: coloro che intendono vivere la realtà divina offerta da lui.

Questo “è il passo migliore del N.T. sulla regalità di Gesù” (A. Wichkenhauser).

Sembra interessante ricordare che i vv. 33 e 33-38 di questa pagina fanno parte del più antico frammento del N.T. che si possiede: il cosiddetto papiro Rylands 457 (prima metà del sec. II) in cui si legge Gv 18,31-33; 37-38.

Fonte: Il Cittadino
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