La parola
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Il buon pastore dà la propria vita per le pecore

IV Domenica di Pasqua (22 aprile)

In quel tempo, Gesù disse: «Io sono il buon pastore. Il buon pastore dà la propria vita per le pecore. Il mercenario - che non è pastore e al quale le pecore non appartengono - vede venire il lupo, abbandona le pecore e fugge, e il lupo le rapisce e le disperde; perché è un mercenario e non gli importa delle pecore. Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me, così come il Padre conosce me e io conosco il Padre, e do la mia vita per le pecore. E ho altre pecore che non provengono da questo recinto: anche quelle io devo guidare. Ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge, un solo pastore. Per questo il Padre mi ama: perché io do la mia vita, per poi riprenderla di nuovo. Nessuno me la toglie: io la do da me stesso. Ho il potere di darla e il potere di riprenderla di nuovo. Questo è il comando che ho ricevuto dal Padre mio». 

Soltanto in Gesù Cristo gli uomini trovano salvezza, cioè affrancamento dal peccato, dal male.

Perché esclusivamente in Cristo gli uomini diventano figli di Dio e quindi destinati ad essere “simili a lui”: non subito, ma al momento della definitiva manifestazione escatologica.

E perché solamente Cristo è il vero Pastore, il buon Pastore, il quale non soltanto si prende cura delle pecorelle, di tutte le pecorelle, ma offre la sua vita umana per dar loro la possibilità di avere la sua vita divina, onde diventare, appunto figli di Dio. 

Nell’antico mondo mesopotamico e biblico, in aderenza ad un tipo di esistenza ben nota, “pastore”, in senso morale, è qualifica di colui che ha responsabilità sugli altri. In tal senso Mosè, Davide e gli altri re, i profeti e i sacerdoti vengono chiamati “pastori”, ma soprattutto perché sono incaricati di governare Israele invece di Jahvé: infatti è Lui il Pastore del popolo (cfr. Gn 48,15; 49,24; ecc. e soprattutto il Salmo 23).

Allorché i responsabili del popolo tradiscono la fiducia di Jahvé, egli li ripudia e preannunzia nella persona del Messia “il pastore” veramente degno (Gr 23,1-8; Ez 34,23 ss.; Zc 11,4-14). Nel cap. 34 del libro di Ezechiele diffusamente si parla della riprovazione dei “pastori” malvagi e di Jahvé, il quale guiderà, difenderà e farà pascolare il suo gregge e finalmente di colui che sarà in grado di essere pastore di Israele con piena fedeltà a Dio.

Quando Gesù, dopo aver guarito il cieco reato, rimproverando i Farisei, attuali “pastori” indegni, afferma “io sono il buon pastore” (il testo greco consente pure la traduzione, più intensa: “sono io il buon pastore”) annuncia chiaramente di essere il Messia profetizzato. Si tratta pertanto di una dichiarazione decisamente importante, solenne.

Gesù non si definisce soltanto “il” pastore, ma precisa che è “buono”, per rimarcare l’assoluta autenticità e perfezione della sua opera, che ha di mira esclusivamente il bene del gregge, del popolo.

Ed è in tale ambito che illustra la valenza della sua “bontà”: sino al punto, non soltanto, di dare “la vita per le pecore”, ma addirittura di “offrirla” sacrificalmente: il che significa che il gregge vale la sua vita.

Non ha alcun interesse o tornaconto personale da difendere, a differenza del mercenario, “al quale non appartengono le pecore” e di fronte al pericolo che le minaccia, anziché difenderle, le “abbandona e fugge”, lasciando che “il lupo le rapisca e le disperda”.

 Il riferimento – non troppo velato – ai suoi interlocutori e ad altri loro simili, può cogliersi facilmente.

Tra Gesù “buon pastore” e le pecore che guida al pascolo, protegge e difende, vi è “conoscenza”, nel senso profondo che questo termine ha nel mondo biblico, non soltanto a livello intellettuale o visivo, ma a livello esperienziale: comunione di pensieri, condivisione di vita. Una “conoscenza!” - comunione -condivisione, talmente intima, talmente vitale da essere paragonata a quella vigente tra Gesù e il Padre: “come il Padre conosce me ed io conosco il Padre”.

Quindi l’attenzione di Gesù si volge alle “altre pecore che non sono di quest’ovile», ossia a coloro i quali ancora non sono entrati in quest’afflato vitale con lui. Egli è pastore universale di tutte le pecore, di tutte le creature, perché tutte gli appartengono: ha la missione, quindi, di “condurle”, di “far ascoltare la sua voce”, cioè i suoi pensieri, il suo amore (di cui le parole sono espressione), in maniera che si costituisca “un solo gregge” sotto la guida amorosa, disinteressata di “un solo pastore”. Un gregge, che viva in verità, perché se Gesù è “il buon pastore” universale, al quale appartengono tutte le pecore, queste si trovano nella verità e nell’amore autentico soltanto in comunione-condivisione soprannaturale con lui. Gesù poi spiega che il Padre lo ama, perché egli compie la sua volontà, con amore, offrendo la vita per le pecore.

Gesù obbedisce al Padre, ma amorosamente, non forzosamente: la vita la offre da sé, nessuno gliela toglie.

Il cerchio di conoscenza-amore si chiude: il Padre ama Gesù, perché Gesù ama le pecore e, amandole, offre la sua vita quale sublime atto di amore al Padre.

Ma l’oblazione della vita da parte di Gesù non è annientamento, giacché egli “la riprende”, allo scopo di condividerla con le pecore. Dall’oblazione all’esaltazione glorificante.

Fonte: Il Cittadino
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