La parola
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4a Domenica di Pasqua (anno B), Giovanni 10,11-18

Il buon pastore dà la propria vita per le pecore

In quel tempo, Gesù disse: «Io sono il buon pastore. Il buon pastore dà la propria vita per le pecore. Il mercenario - che non è pastore e al quale le pecore non appartengono - vede venire il lupo, abbandona le pecore e fugge, e il lupo le rapisce e le disperde; perché è un mercenario e non gli importa delle pecore.

In quel tempo, Gesù disse: «Io sono il buon pastore. Il buon pastore dà la propria vita per le pecore. Il mercenario - che non è pastore e al quale le pecore non appartengono - vede venire il lupo, abbandona le pecore e fugge, e il lupo le rapisce e le disperde; perché è un mercenario e non gli importa delle pecore.
Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me, così come il Padre conosce me e io conosco il Padre, e do la mia vita per le pecore. E ho altre pecore che non provengono da questo recinto: anche quelle io devo guidare. Ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge, un solo pastore.

Nella spiegazione dell’allegoria della porta e del pastore (Gv 10,1-5), Gesù dopo essersi identificato con “la porta delle pecore” (Gv 10,7), ora si identifica con il pastore, qualificato come “bello” e “buono” (in greco c’è l’aggettivo “kalós), e dispiega di fronte a noi come egli è pastore, in modo unico e inconfondibile. Cristo, infatti, non è “un” pastore, ma è “il” pastore, il pastore vero, autentico, che realizza totalmente e secondo un’eccedenza la figura umana del pastore delle pecore.
L’evangelista Giovanni utilizza più volte lo stesso verbo (“títhemi”, “porre”) per descrivere l’azione di Gesù pastore e si possono cogliere, nei diversi passaggi, differenti sfumature di significato che disegnano una dedizione multiforme e sconfinata di Cristo verso noi, sue pecore. Innanzitutto “il buon pastore dà la vita per le pecore” (Gv 10,15), si potrebbe tradurre, in modo più fedele e mantenendo il senso proprio del verbo, che egli “espone la sua vita a favore delle pecore”. Giovanni infatti non usa il verbo del “donare/dare” che indica in modo trasparente l’atto di Gesù che sulla croce dà se stesso, che nell’Eucaristia dà la sua carne “per la vita del mondo” (Gv 6,51), ma allude al fatto che Cristo “espone” la sua vita: a differenza del mercenario, la espone secondo una logica di amore e di coraggio, nel difendere e nel prendersi cura dei suoi discepoli. È questa logica che, in effetti, condurrà Gesù a “porre la sua vita per i suoi amici” (Gv 15,12), in un gesto totale, e la radice di questa disponibilità che segna l’esistenza di Gesù fino al culmine della croce, è che egli è pastore e non mercenario, dunque le pecore sono sue, gli appartengono e perciò le prende a cuore, gli interessano, sono parte della sua vita.
Mentre chi agisce come mercenario, magari sotto le vesti del pastore, agisce mosso dal proprio interesse, perché riceve un salario, non intrattiene una relazione d’affetto e di conoscenza profonda verso coloro che sono affidati alle sue cure, sta sempre a misurare le sue energie e a contare le ore del suo lavoro, e nell’ora del pericolo fugge.
La contrapposizione che qui l’evangelista delinea tra il mercenario e il pastore, diviene così un richiamo, non troppo nascosto, per tutti coloro che sono chiamati ad essere guide e pastori nella comunità dei discepoli, nel gregge formato dalle pecore che amano e seguono Cristo, “il pastore bello”.
Inoltre, Gesù, come pastore, “dispone la vita per le pecore” (Gv 10,15), in quanto condivide con loro la sua stessa vita, che è conoscenza e amore del Padre: “Io sono il buon pastore: conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me, così come il Padre conosce me ed io conosco il Padre”.
Mettere a disposizione la sua vita per i suoi discepoli, significa, per Gesù, vivere con loro un rapporto di conoscenza amorosa, che è riflesso e partecipazione del rapporto unico che egli vive con il Padre. In questo modo, Gesù non arresta i suoi alla propria persona, ma attraverso ciò che egli dice e fa, introduce i suoi amici nella scoperta del Padre e li coinvolge nella relazione che lui, il Figlio, vive con il Padre.
Il vero pastore non ferma le persone a se stesso, ma diviene segno trasparente dell’unico pastore, che è Gesù, e apre un cammino di conoscenza e di affezione che fa entrare nel mistero stesso di Dio, vita senza fine, luce che non conosce tramonto, amore fedele e inesauribile.
Infine Cristo è pastore in quanto “depone la sua vita” a favore delle pecore, liberamente: ed è proprio per questo che il Padre lo ama, perché il Figlio non trattiene per sé l’amore che continuamente riceve dal Padre, ma ne fa dono a noi uomini, suoi fratelli, fino all’estremo, “fino alla fine” (Gv 13,1). Qui intravediamo il mistero della Pasqua e il paradosso che Cristo ha attestato lungo tutta la sua esistenza, che solo perdendo la vita possiamo riceverla e averla in pienezza: “Gesù depone la sua vita volontariamente.
Il suo non è un morire, ma un realizzare la propria esistenza come dono totale d’amore. Il suo deporre la vita ha come fine il riceverla di nuovo. In lui la vita diventa ciò che è: circolazione viva d’amore, dono ricevuto e dato” (S. Fausti).
Guardando al cammino pasquale di Cristo, guardando alla fecondità testimoniata da chi vive lo stesso dinamismo d’amore, con Gesù e dietro Gesù, siamo rinviati alla verità del dono, come “comando ricevuto dal Padre”, come legge che rende buona, bella e vera l’avventura dell’uomo.
La vita che, istante per istante, riceviamo in dono, non si perde, non si “sclerotizza”, non è un lento avanzare verso il nulla, nel vano tentativo di accumulare e di trattenere beni e cose che siamo destinati a lasciare, solo se è rimessa in circolo nel dono gratuito, solo se è perduta e consumata nell’amare; è come il respiro: se proviamo a trattenerlo, soffochiamo.

Il buon pastore dà la propria vita per le pecore
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