La parola
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4a domenica di Pasqua - anno C, Gv10, 27-30

Alle mie pecore io do la vita eterna

La quarta domenica del tempo pasquale è segnata dalla figura di Gesù, presentato nel capitolo 10 del vangelo di Giovanni, come il buon pastore: il passo proposto alla nostra riflessione è, in realtà, un passaggio successivo alla proclamazione dell'allegoria del pastore (10,1-19); il contesto immediato è polemico, le parole di Gesù hanno suscitato opposte valutazioni tra i Giudei (10,19-21), i quali si rivolgono nuovamente a lui, provocando una risposta chiara: 'Fino a quando terrai l'animo nostro sospeso? Se tu sei il Cristo, dillo a noi apertamente' (10,24).

Alle mie pecore io do la vita eterna

La quarta domenica del tempo pasquale è segnata dalla figura di Gesù, presentato nel capitolo 10 del vangelo di Giovanni, come il buon pastore: il passo proposto alla nostra riflessione è, in realtà, un passaggio successivo alla proclamazione dell'allegoria del pastore (10,1-19); il contesto immediato è polemico, le parole di Gesù hanno suscitato opposte valutazioni tra i Giudei (10,19-21), i quali si rivolgono nuovamente a lui, provocando una risposta chiara: 'Fino a quando terrai l'animo nostro sospeso? Se tu sei il Cristo, dillo a noi apertamente' (10,24). Nella risposta, ciò che appare decisivo è proprio la posizione di disponibilità o di chiusura che assumono gli interlocutori di Gesù, ieri come oggi, e vengono ripresi, su questo sfondo, i temi già annunciati nella precedente parabola del pastore: gli uditori non credono, non accolgono la verità di Gesù, svelata nelle sue opere, perché non sono sue pecore, non accettano quest'appartenenza a lui, come il vero pastore d'Israele. Così, nel brano prescelto, è rivelata l'identità di coloro che, invece, sono le pecore del gregge di Cristo e vivono un legame d'amore e di vita con lui; possiamo raccogliere dall'ascolto di queste parole alcuni tratti essenziali, che caratterizzano l'esistenza di chi è toccato da Cristo e coinvolto in una relazione profonda e totale con lui. In primo luogo, l'evangelista sottolinea quest'appartenenza, sono le sue pecore, consegnate dal Padre a Gesù, come dono prezioso: nella grande preghiera sacerdotale in Gv 17, tornerà più volte questa realtà, i discepoli sono coloro che il Padre ha dato al suo Figlio amato: 'Erano tuoi e li hai dati a me … custodisci nel tuo nome coloro che mi hai dato' (Gv 17,6.11). Questa consegna da parte del Padre e questo legame unico con Cristo sono il fondamento di una sicurezza lieta nella vita, della certezza che le pecore di Gesù non andranno perdute, non saranno rapite dalla mano di Cristo, non saranno sottratte dalla mano proteggente del Padre; che respiro e che intensità acquista la vita di chi, nella fede, sperimenta questo possesso indistruttibile, da parte della presenza amata di Gesù, un possesso che può diventare esperienza vissuta, nell'abbraccio fedele della Chiesa, di questo gregge, sostenuto e alimentato dall'amore di Cristo. Quanto è profondo il desiderio dell'uomo di vivere una tale appartenenza, di non essere più preda delle mutevoli circostanze, 'come fanciulli sballottati dalle onde e portati di qua e di là' (Ef 4,14). In secondo luogo, chi vive questo legame reale con Cristo ascolta la sua voce, la sa riconoscere per l'accento di verità e di bellezza che porta con sé, sa scoprire dove risuona questa voce, chi sono i veri testimoni, maestri e pastori che, nel presente, sono viva trasparenza dell'unico Pastore, buono e bello; e quest'ascolto diventa obbedienza, diventa una sequela: 'Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono'. Gli amici di Cristo lo seguono, perché si scoprono da lui conosciuti, compresi, una conoscenza che, nel linguaggio giovanneo, è amore, affezione, una conoscenza che è la sorpresa di sentirsi svelati e compresi da chi ha veramente a cuore il destino dell'uomo.Un terzo tratto di questa condizione d'appartenenza che segna la vita dei discepoli di Cristo è il dono, fin da ora, della vita eterna: 'Io do loro la vita eterna e non andranno mai perdute'; la vita eterna, nel quarto vangelo, non è tanto la vita che viene dopo la morte, ma è la vita vera, la vita piena, che viene da Dio, e che già ora è comunicata a chi crede, una vita così potente che oltrepassa il limite della morte. È la grande promessa di Cristo, che, non a caso, all'inizio della precedente allegoria del pastore, afferma: 'Io sono venuto perché abbiano la vita e l'abbiano in abbondanza' (Gv 10,10). Paradossalmente, questa pienezza di vita è data a chi accetta di appartenere a un Altro da sé, a chi riconosce che il vero pastore, colui che ha nelle mani la nostra vita, non siamo noi stessi, ma questo Signore, che ha fatto dono di sé per noi, che nulla ha tenuto per sé, che realmente ha offerto la sua vita per le sue pecore, perché non vadano perdute.

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