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Palermo e Caivano, è solo colpa dei social?

Famiglia e scuola sono i due capisaldi per invertire la rotta

Abbiamo quasi esaurito il lessico delle esecrazioni utili per commentare le vicende di violenza di cui quotidianamente abbiamo notizia. Colpiscono la reiterazione dei fatti, lo scatenarsi delle pulsioni a sfondo sessuale fino allo stupro e i femminicidi, senza riguardo all’età, lo sfociare di queste azioni criminose e di sopraffazione in gesti di deliberato e predeterminato annientamento delle vite umane, l’associazione a delinquere di giovani e giovanissimi- molti ancora minorenni- il senso di impunità che spiega la ripetizione di questi fatti di cronaca.

I più recenti avvenimenti sono accaduti in questi giorni a Palermo e nel napoletano, ma veramente uno sovviene all’altro e rimuove dalla memoria quelli precedenti, è stata un’estate calda e distruttiva, come se un morbo inguaribile avesse soverchiato le regole del vivere civile: ma mettendo in fila tutti gli omicidi, i femminicidi, gli stupri solitari e di gruppo la linea del tempo ci porta molto indietro, contarli dall’inizio di ogni anno è solo un fatto statistico. Quando la violenza diventa inarrestabile deriva sociale, quando gli istinti e le pulsioni accecano la coscienza fino ad annullarla qualche interrogativo va posto.

Che cosa sta succedendo in noi e intorno a noi?  Certamente il coinvolgimento dei minori come attori di questa rimozione dei limiti e protagonisti di comportamenti disgustosi, ingiustificabili, terrificanti  ci invita a riconsiderare l’adolescenza come età della crescita e degli apprendimenti, evidentemente non esistono più buoni maestri per coloro che si macchiano della scelta di fare del male, non ci sono più né a casa né a scuola: oppure bisogna ammettere che giovani e giovanissimi, pur istruiti al bene e all’applicazione di buone regole di vita disdegnano spesso gli insegnamenti tradizionali per assumere le sembianze di una generazione che attraverso i social e l’emulazione collettiva, sta perdendo il senso del limite.  

Qualcuno ha scritto che i gruppi di ragazzi che si uniscono per compiere gesti di teppismo, distruggere le auto in sosta nel girovagare notturno, che allagano le scuole, che vedono nelle loro coetanee facili prede si cui sfogare le proprie pulsioni sessuali senza freni inibitori, che picchiano i disabili e uccidono i clochard,  indifferenti ai concetti di rispetto umano, di dignità della persona ma consapevoli di realizzare una concezione strumentale e distruttiva del corpo e dei sentimenti altrui, lasciando ferite indelebili, macchie che vanno oltre l’accertamento del DNA,  questi gruppi che si accorpano e si ‘gasano’ per progettare azioni senza limiti fisici e morali non devono essere definiti come quelli del “branco” o delle “baby gang”. Forse sono definizioni azzardate, forse chi si macchia di questi reati non ha ricevuto educazione alcuna, buoni esempi, raccomandazioni cogenti. Anche se esprimono comportamenti predatori tipici di chi si aggrega per delinquere. Non facciamone una questione nominalistica.

I social stanno alla base di questi meccanismi distruttivi o autolesionistici: non siamo stati capaci - noi adulti - a limitarne l’uso, non controlliamo in quali meandri paludosi ‘navigano’ in rete i nostri figli.

C’è poi la diffusione dello sballo come rifiuto di una quotidianità noiosa e castrante. Girano droghe di ogni tipo, ovunque. A scuola, per la strada, nelle discoteche: i pusher sono volti noti e non sempre hanno le sembianze del lupo mannaro. Accanto a questa diffusione massiva di stupefacenti, alcool, pasticche dello stupro ci sono molte armi che girano tra giovani e giovanissimi. Auto di grossa cilindrata a disposizione per challenge estremi.

Che cosa sanno i padri e le madri di questi adolescenti? Quasi nulla, certa fiducia senza controlli è più scellerata dei comportamenti dei figli. Sono gli adulti che hanno impartito in questi anni la didattica dei diritti e delle libertà sfrenate, crescendo una prole fondamentalmente viziata, dicendo sempre e solo dei “sì”. Che cosa ci fanno ragazzini e ragazzine in giro alle tre di notte? Dove sono i loro genitori? Queste domande sono propedeutiche ad ogni spiegazioni postume, in molti casi li vanno a raccattare sui luoghi dei delitti, nei postriboli del sesso libero, nei meandri dello stordimento, tra i rottami degli incidenti stradali.

Questi giovani sono artefici del male e ne sono vittime.

Viene da chiedersi se sia proprio deprecabile ritornare ad esercitare le proprie responsabilità di padri e di madri, se non sia giusto imporre dei limiti, ripristinare il verbo “ubbidire”, reintrodurre il concetto di castigo a fronte di comportamenti devianti e pericolosi, fino alla vera e propria delinquenza vissuta come passatempo perché “le cose belle si fanno tra amici”.

Ricordano i protagonisti del libro di Gilbert Cesbron “Cani perduti senza collare”, una generazione di ragazzi allo sbando, lasciati soli davanti all’impatto con le difficoltà della vita, e chiamati a costruire da sé il proprio futuro attraverso gli errori e le incertezze della giovane età. La deriva pervasiva del male emulato come comportamento normale va fermata e corretta.

E tocca a quello che resta di scuola e famiglia farlo senza indugio.

Fonte: Il Cittadino
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