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Giornata dei diritti dell'infanzia - Quell'innocenza perduta

Tecnologie e algoritmi condizionano lo sviluppo e l'apprendimento ribaltando i valori

Il Novecento si era aperto come secolo dell’infanzia, una sorta di investimento sul futuro in un’epoca da cui trasparivano i tratti della modernità: utopia poi smentita da due guerre mondiali, dalla Shoah, dai genocidi, dall’emarginazione e dallo sfruttamento dei bambini e dei ragazzi, a cominciare dal mondo del lavoro precoce, alle povertà endemiche, nonostante germinasse la lunga stagione dei diritti culminata dalla Dichiarazione universale dell’ONU e dalle Carte degli organismi internazionali.

Oggi al tratto peculiare dell’infanzia e dell’adolescenza come luoghi antropologici di marginalizzazione si aggiunge il suo opposto: la logica dell’inglobamento nell’etica dei comportamenti dell’età adulta, favorita dall’esplosione delle nuove tecnologie, dall’adultismo precoce, dalla diffusione della droga, dalla crisi delle istituzioni deputate alla formazione delle giovani generazioni, innanzitutto la famiglia e la scuola.

Sullo sfondo sta - e qui concordo con Umberto Galimberti – l’intuizione heideggeriana del “pensiero che fa di conto” e del “dio denaro” come motore del mondo e parametro di riconsiderazione della vita stessa.

Questo “nuovo algoritmo” dell’esistenza azzera infanzia e adolescenza come luoghi protetti di innocenza e speranza, gratuità e gioia dell’esperienza del vivere, età dello studio e della preparazione alla vita, contesti avulsi dal mercimonio di una umanità malata di egocentrismo e pulsioni sregolate, liceità, relativismo etico, permissivismo, utilitarismo come paradigma di scelta e saturazione nel presente totalizzante dell’intera esistenza. Tutto muove contro il “Gelassenheit”, l’abbandonarsi sereno, con distacco, verso la natura e le stagioni della vita.

I minori entrano oggi in una sorta di universo inesplorato e sconosciuto, a volte impenetrabile, con sequenze di contaminazione facilitate dall’uso disinvolto delle tecnologie e degli smartphone, vere e proprie chiavi di accesso all’ignoto, dove la vita virtuale sostituisce quella reale e con essa i valori tramandati per secoli dalla tradizione pedagogica delle metodologie di apprendimento della cultura e del suo costituirsi in noi.

Essere bambini e ragazzi oggi consente potenzialità impensabili in passato, ci sono tutele e previsioni normative evolute e ispirate ma comporta l’incombenza di pericoli sempre nuovi e incontrollabili: sono loro infatti i clienti più abbordabili dai criminali del web, dai venditori di morte attraverso droghe chimiche accessibili a buon mercato e dagli effetti letali, dalle calamite dei tanti paesi dei balocchi, dove loro, i nuovi Lucignoli , vivono esperienza fuorvianti, dalle slot machine, all’abuso di alcolici, alla disponibilità di denaro che si procurano facendo mercimonio del proprio corpo, dal sesso precoce, al cyberbullismo, ai giochi estremi che sfidano la morte (“bisogna guardarla negli occhi” dicono), alla violenza agita come categoria relazionale prevalente, all’indifferenza verso lo studio, la scuola e i suoi insegnanti, fatti oggetto non di rado di derisione e aggressioni fisiche.

Un ribaltamento valoriale che postula diritti e libertà senza doveri e senza regole.

Il nuovo modello di vita dei ragazzi del nostro tempo è una sorta di gigantesco e mutabile casting mediatico dove si recita a soggetto, in un rimescolamento di ruoli e identità che ha una valenza anticipatoria rispetto alla fisiologia delle esperienze delle precedenti generazioni.

Al crocevia dei più efferati comportamenti umani c’è spesso uno snaturamento dell’età infantile e adolescenziale, ci sono luoghi dove l’emulazione delle colpe e dei difetti degli adulti genera situazioni paradossali: si pensi alla diffusione delle armi tra i giovanissimi, anche nei Paesi cosiddetti civili (in alcuni Stati degli USA il primo fucile viene fatto trovare agli adolescenti sotto l’albero di Natale), altri dove i minori sono militarizzati, fatti prostituire, fanno parte di bande criminali, usati per il trapianto di organi.

Ma anche “semplicemente” abbandonati: negli orfanotrofi spogli di ogni affetto, nelle favelas, nelle periferie più degradate, in attesa di essere adottati vincendo burocrazie e veti che li sottraggono per lunghi anni, a volte per sempre, al calore di una famiglia.

Ma non occorre andare lontano per scoprire atrocità e violenze, abbandoni e contese, strumentalizzazioni e miserie materiali e spirituali.

Quanti sono i minori non accompagnati che varcano confini stranieri? Per quanto tempo resteranno in questa condizione di isolamento anaffettivo? Che cosa si fa per loro?

Basta aprire una porta di casa per scoprire violenze domestiche subìte o assistite e abusi, soffocati e silenti nello squallore più degradante: crescendo questi bambini metabolizzeranno una concezione intuitivamente perdente della vita, la loro infanzia e la loro adolescenza saranno anagraficamente bypassate da un mondo esterno fatto di soprusi ed esempi che potranno diventare lezioni negative di vita, a loro volta ripetibili, come emulazione o vendetta, dove valori quali l’affetto, la lealtà, l’amicizia, la dignità saranno sostituti dalla violenza in tutte le sue multiformi e negative cangianze.

Quale interfaccia la società propone alla famiglia e alla scuola per diffondere buoni esempi e ispirare sentimenti di tutela e protezione, per facilitarne il compito educativo?

Guardandoci intorno osserviamo un panorama desolante, dove gli archetipi del buon esempio e del bene vanno scomparendo.

Non so se oggi il gesto di Ettore di cui scrive Luigi Zoja, del padre – cioè - che eleva il figlio al cielo e lo affida alla benevolenza degli dei affinchè cresca migliore di lui, sia ancora una prassi consueta.

Il declino e la crisi della figura paterna nella società contemporanea sono una delle principali cause dell’innocenza perduta dei figli.

Ricordo ciò che scrisse Gabriel Garcia Marquez: “Ho imparato che quando un neonato stringe per la prima volta il dito del padre nel suo piccolo pugno, l’ha catturato per sempre”.

E nel mio cuore penso a questo contatto come al bisogno e all’impegno di una vita.

 

 

Fonte: Il Cittadino
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