La parola
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33a domenica del Tempo Ordinario - anno A, Matteo 25, 14-30

Prendi parte alla gioia del tuo padrone

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli questa parabola: "Avverrà come a un uomo che, partendo per un viaggio, chiamò i suoi servi e consegnò loro i suoi beni. A uno diede cinque talenti, a un altro due, a un altro uno, secondo le capacità di ciascuno; poi partì.

Prendi parte alla gioia del tuo padrone

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli questa parabola: "Avverrà come a un uomo che, partendo per un viaggio, chiamò i suoi servi e consegnò loro i suoi beni. A uno diede cinque talenti, a un altro due, a un altro uno, secondo le capacità di ciascuno; poi partì.
Subito colui che aveva ricevuto cinque talenti andò a impiegarli, e ne guadagnò altri cinque. Così anche quello che ne aveva ricevuti due, ne guadagnò altri due. Colui invece che aveva ricevuto un solo talento, andò a fare una buca nel terreno e vi nascose il denaro del suo padrone.
Dopo molto tempo il padrone di quei servi tornò e volle regolare i conti con loro.

Una nota caratteristica dell'evangelista Matteo è la forte insistenza sulla dimensione morale della vita cristiana: seguire Gesù come Signore e Messia coinvolge l'esistenza del discepolo, in un movimento d'imitazione e d'immedesimazione, e comporta un ascolto efficace della Parola del Regno.
Già alla conclusione del primo grande discorso del suo vangelo, Matteo ci ha detto con chiarezza che non basta ascoltare le parole di Gesù, ma occorre fare e mettere in pratica l'insegnamento dell'unico maestro, e l'uomo sapiente, che costruisce la casa sulla roccia, è appunto colui che ascolta e mette in pratica, lasciando che il Vangelo plasmi e dia forma ai suoi gesti e alle sue scelte (cfr. Mt 7,24-27). Sulla stessa linea, l'invito alla vigilanza che è presente nel discorso escatologico finale, in tutti i sinottici, si precisa nello scritto di Matteo come un richiamo a vivere un'operosità feconda, mettendo a frutto i differenti talenti ricevuti da Dio.
La celebre parabola che oggi ascoltiamo si trova collocata, non a caso, dopo la parabola delle vergini sagge, che si concludeva con l'appello a vegliare, perché non conosciamo né il tempo né l'ora in cui il Signore verrà, alla fine della storia, e prima dell'affresco suggestivo del giudizio, tutto incentrato sulle opere dell'amore.
La consegna dei beni, da parte del padrone, è un atto di fiducia e nello stesso tempo una chiamata a vivere la responsabilità verso i doni affidati; la misura differente del denaro (in ogni caso sempre consistente perché un talento corrispondeva a 6000 denari, l'equivalente di 6000 giornate lavorative per un salariato) rappresenta bene il carattere personale del dono ed esprime un amore del Signore per i suoi discepoli non generico, ma adeguato alla singolarità e alla capacità di ciascuno.
Come a dire che all'origine dei doni propri di ogni esistenza, e di ogni cammino di fede, c'è una libertà gratuita, ma non arbitraria che desidera far fruttificare i suoi beni attraverso la collaborazione degli uomini. Non basta conservare passivamente ciò che si è ricevuto, tutto ciò che abbiamo e tutto ciò che siamo, ma Dio vuole che abbiamo a vivere una fecondità nella nostra esistenza di credenti, certo mettendo in gioco la nostra libertà, ma anche potendo gioire di un'opera che cresce nel tempo.
Prima ancora della gioia prospettata al ritorno del padrone, nell'ora del rendiconto, immagine trasparente della gioia piena nella comunione con il Signore, c'è un'altra gioia che i due primi servi sperimentano, ed è appunto nel mettere a frutto i propri doni, nel percepire un'utilità e una positività nel loro lavoro, nel vedere premiato il rischio della loro attività.
Perché sullo sfondo del racconto, c'è l'elemento del rischio possibile nel trafficare i talenti, che possono moltiplicarsi, ma possono anche andare perduti, ed è la paura del rischio che paralizza l'ultimo servo.
Non è soltanto una questione di pigrizia, ma d'ignavia, d'incapacità a decidere, per timore di perdere quello che ha, e come appare nel dialogo finale con il padrone, il servo è come paralizzato da un'immagine cupa del suo signore, sentito come "un uomo duro".
Mentre i primi due servi si sentono investiti dalla fiducia del loro padrone, e hanno così la libertà d'osare il rischio, l'ultimo resta chiuso nella sua meschinità, perché prigioniero di una rappresentazione negativa del suo signore.
Nel rimprovero del padrone, che sembra confermare l'opinione del servo, c'è in realtà una sottile e amara ironia: "Proprio tu, che mi consideri un uomo duro, avresti dovuto fare almeno il minimo e affidare il mio denaro ai banchieri, e invece, vinto dalle tue paure, non hai osato nulla, ti sei accontentato di conservare il talento sotto terra, ti sei rassegnato ad una vita incolore e infeconda".
Qui si svela l'autentico desiderio di Dio, che non è un uomo duro, ma un padre che ci affida i suoi doni ed è ben lieto di vederci all'opera e di poter riconoscere la fecondità del nostro lavoro e del nostro rischio: un Dio che non ci vuole uomini rinunciatari che si accontentano di una vita tranquilla, "sanza infamia e sanza lodo", ma uomini liberi, che certi della sua fiducia e del suo amore, vivono il tempo dell'attesa in una vigilanza attiva e lieta, e già pregustano nel presente almeno un inizio di quella gioia senza fine che il Signore prepara per noi, con lui.

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