La parola
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15a domenica del Tempo Ordinario - anno C, Lc 10, 25-37

Chi è il mio prossimo?

Alla domanda del dottore della legge, 'Maestro, che devo fare per ereditare la vita eterna?', Gesù risponde, richiamando due testi della Scrittura (Dt 6,5 e Lv 19,18), e mettendo al centro della vita non tanto delle opere da compiere, ma il dinamismo di un amore che abbraccia Dio e il prossimo: 'Amerai il Signore Dio tuo … amerai il prossimo'.

Chi è il mio prossimo?

Alla domanda del dottore della legge, 'Maestro, che devo fare per ereditare la vita eterna?', Gesù risponde, richiamando due testi della Scrittura (Dt 6,5 e Lv 19,18), e mettendo al centro della vita non tanto delle opere da compiere, ma il dinamismo di un amore che abbraccia Dio e il prossimo: 'Amerai il Signore Dio tuo … amerai il prossimo'. Un amore che nasce proprio dalla scoperta e dal riconoscimento del Dio vivente, il Dio che si è svelato ad Israele, il Dio che ora mostra il suo volto compiuto in Gesù stesso: un Dio così amante dell'uomo, così appassionato del suo destino, chiede d'essere accolto e amato come Dio, con una totalità senza misura; il prossimo non può pretendere questa totalità, può essere amato 'come te stesso', e in realtà, come testimoniano i grandi santi della carità, la capacità inesauribile di condividere i bisogni e i drammi del prossimo nasce e si alimenta in un'esistenza orientata decisamente a Dio. Ma è vero anche il contrario: spalancare il cuore al Dio dell'alleanza significa lasciarsi ferire e provocare dall'uomo reale e concreto che incontriamo, riconosciuto non più estraneo, ma prossimo, perché partecipe dello stesso destino e della stessa condizione di figlio. È qui il senso della parabola che solo Luca riporta nel suo vangelo, inserendola in questo dialogo tra Gesù e lo scriba; la seconda domanda che questi pone richiama un tema trattato nel giudaismo del tempo, chi considerare prossimo, se solo il connazionale, o anche il convertito non ebreo, o qualsiasi uomo. In realtà la questione risente di una certa astrattezza e attraverso la parabola del buon samaritano Cristo capovolge la prospettiva: il punto non è determinare chi è il prossimo, ma diventare noi prossimi dell'uomo nella sofferenza e nel bisogno; alla fine, prossimo è qualunque uomo, in cui ti imbatti, e che, anche nel silenzio del suo dolore, ti chiede aiuto, provoca il cuore ad una vera 'com-passione', che si realizza come gesto, come cura, come condivisione piena; prossimo diviene colui al quale tu ti fai prossimo, ospitando la sua presenza nella tua vita. In modo paradossale, nella parabola, questo movimento di amore gratuito è incarnato non nel sacerdote e nel levita, che passano oltre il malcapitato: qui è possibile che ci sia una nota polemica e critica verso un culto formale, che chiude il cuore, in quanto il sacerdote e il levita si stanno recando a Gerusalemme, al tempio, probabilmente per un servizio e non si avvicinano al ferito, perché il contatto con sangue umano costituiva un'impurità rituale che rendeva inabili al culto. Si ferma invece un samaritano, che agli occhi dei Giudei rappresentava un impuro, da evitare, non fa distinzioni se l'uomo da soccorrere sia un suo connazionale e un giudeo, vede in lui un uomo, si lascia 'com-muovere' dalla sua sofferenza, e la compassione si distende in una serie completa di azioni, di gesti, che permettano il pieno ristabilimento del ferito, fino a provvedere a pagare le spese della cura e dell'ospitalità nella locanda. La carità, come dono commosso di sé, abbraccia l'altro, fino in fondo, e si fa carico del bisogno, in tutta la sua concretezza e in tutte le sue dimensioni: quante testimonianze nel cammino della Chiesa di quest'immensa energia di bene, maturata e realizzata nel cuore dei santi, di uomini e donne che, ferite dall'amore di Cristo, hanno da lui imparato a farsi prossimi, condividendo la vita e i drammi dei loro fratelli in umanità, senza distinzioni, senza pregiudizi. In fondo, non sbagliavano i padri della Chiesa a leggere questa parabola in chiave cristologica, vedendo in Gesù stesso il buon samaritano, che si lascia commuovere dalla miseria dell'uomo, debole e peccatore, che gli viene vicino, gli fascia le ferite, si prende a cuore il suo destino, il suo bene: come ogni parola del Vangelo, anche questa parabola, prima che essere pronunciata da Gesù, in Lui diviene carne, volto, storia, ed è proprio guardando a Cristo, che i discepoli possono dilatare il loro cuore, in una carità che si fa tutto a tutti.

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