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Epifania e pandemia: oggi si incontrano la speranza e la sofferenza

Istituzioni, Asl, associazioni e gruppi di volontariato impegnati in sinergia per alleviare sofferenze e solitudini

Epifania e pandemia: la prima è simbolo di una rinnovata (da 2020 anni!) presenza, di una nuova speranza per un cammino di fraternità universale. La seconda è manifestazione di sofferenza, solitudine, isolamento, paura.
Paura per gli aspetti sanitari, economici, sociali. Paura di perdere quel qualcosa o quel tutto che ci teniamo stretto, perdere quei paletti che fino ad oggi hanno tracciato i passi della nostra vita (denaro, lavoro sicuro, istruzione, agi, consumi, apparente allegria) e hanno puntellato un accumulo di desideri trasformati in bisogni. Paura di condividere con i nuovi arrivati e non si tratta di migranti! I nuovi arrivati sono quegli aspetti che hanno alterato la “normalità” e che creano scomodità, isolamento, rinuncia. Paura di condividere la stessa barca con decine, migliaia, milioni di persone dai volti diversi, ma con gli stessi diritti, che però vorremmo scendessero perché ci costringono ad accettare, a cambiare; perché vorremmo il nostro posto sicuro.
L’Epifania ci ha riproposto un Erode infastidito, preoccupato, turbato; un uomo accumulatore seriale di vanità e superfluo che percepisce il Messia come un usurpatore. La pandemia ha provocato un brusco risveglio che da un lato ci fa sentire umani, sociali, vicini ma dall’altro spinge verso il fastidio e l’indifferenza e l’intolleranza verso tutti e tutto, scomodi gli uni agli altri. Con i primi giorni dell’anno (che tutti ci auguriamo migliore) siamo ancora una volta invitati a riflettere, a chiederci chi siamo e dove vogliamo andare, quale manifestazione vogliamo essere, quali comportamenti adottare: scegliere se, come Erode, vogliamo lasciarci “erodere” dalla paura, dalla gelosia, dall’individualismo indifferente o se desideriamo essere “manifestanti” di una vita diversa e possibile. Dalla paura (Erode) alla dinamicità, al cammino verso orizzonti di pazienza, di costruzione, di fraternità e speranza (i Re Magi). Con la pandemia, molti dicono, nulla sarà più come prima. Anche per la Chiesa nulla sarà come prima ma resta un messaggio da continuare ad annunciare in una realtà cambiata e oggi ancor più bisognosa di parole di resurrezione. E allora…?
“Dobbiamo fermarci - è l’appello del Papa nel Messaggio per la 54° Giornata Mondiale della Pace, celebrata il 1° Gennaio - e chiederci: come convertire il nostro cuore” per cercare veramente “la pace nella solidarietà e nella fraternità?”. La pandemia, sottolinea il Papa, “ci insegna l’importanza di prenderci cura gli uni degli altri e del creato, per costruire una società fondata su rapporti di fratellanza. Perciò ho scelto come tema di questo messaggio ‘La cultura della cura come percorso di pace’”. Francesco indica due vie da percorrere per la cultura della cura: la prima è seguire l’esempio del Maestro; la seconda è far divenire abituale oggi nelle nostre comunità la condivisione: il Papa ci ricorda infatti che “i cristiani della prima generazione praticavano la condivisione perché nessuno tra loro fosse bisognoso (cfr At 4,34-35) e si sforzavano di rendere la comunità una casa accogliente, aperta ad ogni situazione umana, disposta a farsi carico dei più fragili”. È la via indicata nella dottrina sociale della Chiesa, vera “bussola” per imprimere al processo di globalizzazione “una rotta veramente umana, che attraverso i suoi principi pone le basi per la cura della dignità e dei diritti della persona”.
Ecco: fermarci, chiederci quale comunità manifestante di Dio vogliamo essere. Accogliere tutte le questioni del mondo, dell’umanità. Quella umanità che (anche) in tutti questi mesi abbiamo accolto, servito nella nostra città; una piccola parte dell’umanità in rappresentanza delle moltitudini che continuano ad essere escluse dalle nostre presunte democrazie e giustizie. Sulla stessa barca? Forse dovremmo attrezzarci per lanciare delle scialuppe di salvataggio per gli smarriti di cuore, per i ciechi, gli storpi, i muti, i poveri del nostro tempo: le vie, la bussola le conosciamo.

È il momento di manifestare la nostra appartenenza, il compito che ci è stato affidato e che è insito nel nostro battesimo. Con il motivo del distanziamento rischiamo di “prendere le distanze” dalla realtà universale. Altro che fraternità! All’inizio dell’anno non bastano gli auguri, non servono se non c’è desiderio, impegno coerente per tracciare quei percorsi di incontro dove “ognuno svolge un ruolo fondamentale, in un unico progetto creativo, per scrivere una nuova pagina di storia, una pagina piena di speranza, piena di pace, piena di riconciliazione” (FT 231). Come essere attori (manifestanti) della cultura della cura, del prenderci cura della casa comune se manteniamo le distanze? se nelle nostre comunità (spesso comode) non “parliamo” con la storia, non dialoghiamo tra noi e con il mondo?
Abbiamo davanti una pagina bianca sulla quale scrivere una storia nuova. Questa benedetta Epifania che si protrae nel Battesimo di Gesù ci suggerisce di ripensare la nostra identità e cambiare passo: “Come cristiani non possiamo nascondere che se la musica del Vangelo smette di vibrare nelle nostre viscere, avremo perso la gioia che scaturisce dalla compassione, la tenerezza che nasce dalla fiducia, la capacità della riconciliazione che trova la sua fonte nel saperci sempre perdonati-inviati. Se la musica del Vangelo smette di suonare nelle nostre case, nelle nostre piazze, nei luoghi di lavoro, nella politica e nell’economia, avremo spento la melodia che ci provocava a lottare per la dignità di ogni uomo e donna. Altri bevono ad altre fonti. Per noi, questa sorgente di dignità umana e di fraternità sta nel Vangelo di Gesù Cristo. Da esso scaturisce per il pensiero cristiano e per l’azione della Chiesa il primato dato alla relazione, all’incontro con il mistero sacro dell’altro, alla comunione universale con l’umanità intera come vocazione di tutti. (...) Chiamata a incarnarsi in ogni situazione e presente attraverso i secoli in ogni luogo della terra – questo significa ‘cattolica’ –, la Chiesa può comprendere, a partire dalla propria esperienza di grazia e di peccato, la bellezza dell’invito all’amore universale” (FT 277-278).

Fonte: Il Cittadino
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