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Riscoprirsi fragili

La crisi sanitaria fa riflettere sulla precarietà della vita

In questi giorni in cui l’attualità ci propone scenari di crisi, che sino a ieri eravamo abituati a confinare in un immaginario lontano nel tempo e nello spazio, sono sempre più numerosi, sui social e negli articoli di giornale, i confronti tra l’epidemia di Covid-19 e le grandi pestilenze del passato. I termini di paragone più diffusi sono quelli resi celebri dalla letteratura, su tutti la peste della metà del XIV secolo, storia cornice del Decamerone boccaccesco, e quella del 1630, sfondo ad alcuni dei più noti capitoli dei Promessi sposi. Tali raffronti, benché privi di ogni validità storica, possono però rivelarsi spunti di riflessione importanti, un’opportunità preziosa per l’uomo del 2020 di riconsiderare se stesso.

Innanzitutto, è bene chiarire che questa analogia regge solo nel limitato contesto delle battute, alcune anche ben fatte, di Facebook. Ciò almeno per due motivi.

Primo: l’adagio vichiano dei corsi e dei ricorsi storici è una suggestione intrigante ma priva di fondamento. La storia non si ripete, ciò che si ripresenta nel tempo sono solo degli schemi, che combinati tra loro danno vita a scenari sempre diversi. Gli esseri umani di ogni epoca si somigliano tra loro e capita che ripropongano comportamenti tipici - l’isteria davanti al diffondersi del morbo e la caccia all’untore, ad esempio – ma le circostanze di tempo, di luogo, economiche, sociali, culturali e tecniche in cui si inseriscono sono sempre diverse. Anche qualora si riaffacciasse oggi sul proscenio della storia lo stesso agente patogeno del 1347 assisteremo, come è ovvio, solo in parte a fenomeni simili a quelli di settecento anni fa.

Secondo: l’epidemia di Covid-19 non è di per sé lontanamente paragonabile, per gravità, alle grandi pandemie del passato, ce lo dicono chiaramente i numeri: nel 1353, dopo quasi sei anni di pestilenza, in Europa erano morte circa 20 milioni di persone, un terzo della popolazione del continente, con un tasso di letalità (n° morti/n° ammalati) del 50%. Il nuovo coronavirus, è bene ricordarlo, ad oggi registra poco più 80.000 contagi e meno di 3000 morti in tutto il mondo, con una letalità che oscilla tra lo 0,8 e il 3,9 % a seconda delle zone del globo. Nonostante queste avvertenze, il paragone con le esperienze passate qualcosa può insegnarci. L’attuale crisi sanitaria ha, infatti, riportato in auge un dato che i nostri antenati, costretti tra conflitti e carestie, avevano ben chiaro: la precarietà della condizione umana.

Certo, rispetto al XIV secolo l’età media è aumentata, i progressi medici sono stati enormi, eppure la realtà dell’uomo non è mutata, rimane sempre quella canna pensante, suscettibile di essere uccisa da una sola goccia d’acqua, così abilmente evocata da Pascal nei suoi Pensieri. Noi però, figli della contemporaneità e della tecnica, fortunati abitanti di un continente che da almeno 75 anni non conosce la guerra e la fame generalizzata, abbiamo finito per scordarci di questa nostra fragilità. Chiudendo gli occhi davanti all’evidenza, abbiamo fatto nostro un ideale umano, perfetto nel corpo ed eternamente giovane, che non ha riscontri nella realtà. Siamo giunti ad avvertire la malattia, la sofferenza ed anche, per quanto ineluttabile, la vecchiaia non come situazioni normali ma come vicende patologiche, intoppi imprevisti, rispetto a un’umanità che nel suo sviluppo fisiologico non dovrebbe conoscere difficoltà alcuna. La stessa consapevolezza della morte rimane dietro le quinte, estromessa da ogni discorso pubblico, evocata, quando indispensabile, a bassa voce.

Uno dei massimi poeti italiani, Leopardi, sebbene in un’ottica atea e materialista, ci ha esemplarmente redarguito circa questo atteggiamento superbo figlio di alcuni falsi miti del positivismo, irridendo, nel suo testamento poetico La ginestra, o fiore del deserto, l’uomo che preso dal progresso dimentica i suoi molti limiti: «Mortal prole infelice, o qual pensiero Verso te finalmente il cor m'assale? Non so se il riso o la pietà prevale.». La stessa Sacra Scrittura a più riprese ci mette in guardia dalla vanità di una vita umana che limita il suo orizzonte ai beni terreni, siano essi anche la sapienza e la cultura: «tutto è vanità e un correre dietro al vento» ci ricorda autorevolmente e con lucidità estrema il libro di Qoèlet.

Ebbene l’esperienza attuale che ci parla di malattia, cavallette e terremoti ci restituisce a questa nostra dimensione di precarietà. Ciò penso possa essere un bene per tutti: ci permette di avere più chiari i nostri limiti e di conseguenza di non relegare ai margini dell’umano tutto ciò che è sofferenza e malattia.

Ovviamente, però, non è limitando lo sguardo alle cose di questo mondo che si può cogliere appieno il valore di questa nostra fragilità. Ricordarci che il nostro fisico è precario, infatti, ci ricorda parimenti che quella umana non è una dimensione esclusivamente materiale e che quell’esigenza di infinito che tutti noi avvertiamo, quell’istanza all’immortalità che sentiamo dentro e che oggi traduciamo frettolosamente in un’ideale eterna giovinezza, ha una risposta che non può risiedere meramente nella nostra corporeità. Gli eventi di questo inizio di Quaresima ci ribadiscono, insomma, che abbiamo una legittima sete di infinito e che questa non può essere placata da altra bevanda se non quell’acqua viva che Gesù offrì alla Samaritana al pozzo.

Fonte: Il Cittadino
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