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Hotel Rwanda

Hotel Rwanda

Racconta un'antica storia africana che un uomo diede rifugio a un leone ferito e che questo, una volta guarito, se ne andò senza arrecare alcun danno alla famiglia che viveva in quella casa. "Se un uomo può ospitare sotto il suo tetto un feroce leone - è la conclusione della saggezza popolare - perché non potrebbe accogliere un essere umano, un suo simile?". Paul Rusesabagina, ex direttore d'albergo ruandese, narra questo detto nel libro che racconta la sua vita per spiegare l'istintivo senso di ospitalità del suo popolo e, a partire da qui, descrive i cento giorni in cui il suo albergo divenne un rifugio per centinaia di persone nel mezzo del caos del genocidio del 1994. Sulla storia del massacro dei tutsi e degli hutu moderati, sul ruolo ambiguo dell'Occidente, su alcune figure di "giusti" (come il console italiano Pierantonio Costa) si è scritto molto, in questi anni: basti ricordare il reportage "Desideriamo informarla che domani verremo uccisi con le nostre famiglie" di Philip Gourevitch, o il film "Accadde in aprile". Alla vigilia del ventennale del genocidio, la casa editrice genovese "Il Canneto" traduce l'autobiografia che Rusesabagina ha scritto insieme al giornalista americano Tom Zoellner, e che racconta la vicenda che è stata al centro del bel film "Hotel Rwanda" diretto da Terry George e uscito nelle sale di tutto il mondo dieci anni fa ("Hotel Rwanda, la vera storia", pp. 195, 18 euro). Zoellner riesce a far emergere la figura di un uomo giusto dallo sfondo di quei giorni drammatici: ne emerge un ritratto netto, definito, ma senza cedere alle tentazioni agiografiche. Al contrario, ciò che resta in primo piano non è il protagonismo del direttore dell'albergo, ma le vicende umane dei suoi ospiti e, soprattutto, del "Paese delle mille colline" che Rusesabagina ricorda con l'affetto e la nostalgia del profugo. Era il 6 aprile 1994 quando in Rwanda si scatenò l'inferno: in tre mesi un milione di morti, massacri e violenze di ogni genere. In quei cento giorni di follia collettiva Rusesabagina, che dirigeva l'Hôtel des Mille Collines, nascose nell'albergo tutsi ed hutu moderati, contribuendo così a salvare la vita di 1268 persone, protetto non tanto dalle impotenti milizie Onu o dalla polizia, ma dalla rete di rapporti e amicizie intrecciata in anni di lavoro. La differenza tra hutu e tutsi è un'invenzione e il protagonista del racconto lo spiega partendo dalla sua vicenda di figlio di famiglia mista: ma le divisioni coloniali furono sfruttate per creare barriere tra la gente, per far crescere il disprezzo, per far emergere frustrazioni antiche. A questo si aggiunse una politica dissennata della comunità internazionale e di alcuni paesi in modo particolare: così, in breve tempo, lo strumento da lavoro di questo popolo contadino, il machete, si tramutò in una micidiale e orrenda macchina da sterminio. E quelli che fino a poco prima erano amici, compagni di classe, vicini di casa, divennero spie ed assassini. Nella descrizione asciutta della violenza di quei giorni, si staglia la normalità della figura di Paul Rusesabagina: "il mio unico orgoglio - spiega nell'introduzione - è che rimasi al mio posto e continuai a fare il mio lavoro di direttore, mentre ogni senso morale scompariva". Il direttore accoglieva tutti coloro che chiedevano aiuto, mentre fuggire dal Paese sembrava impossibile: quasi 1300 persone in uno spazio progettato per trecento, di cui quaranta nella sua stanza. Si dormiva nei corridoi, nella sala da ballo, sui pavimenti dei bagni, nelle dispense, si beveva l'acqua della piscina. E, nel frattempo, il direttore sfruttava la linea telefonica del fax - l'unica attiva - per far arrivare la sua voce in tutto il mondo e per sollecitare le conoscenze politiche e militari affinché l'hotel fosse preservato dalle incursioni armate. Bevve drink discutendo con decine di colonnelli, utilizzò le sue capacità diplomatiche per salvare la vita della sua famiglia e dei suoi ospiti. Rusesabagina scelse di non partire per rimanere, come unica, esile barriera tra quelle 1268 persone e la morte. Lo fece con la serenità di un giusto che percepisce quella come l'unica scelta possibile e seguendo l'istinto ospitale dell'uomo africano, che sarebbe disposto ad accogliere in casa sua anche i leoni, ma, alla fine, le bestie feroci se te trova davanti alla soglia di casa.

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