La parola
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La Domenica delle Palme (anno A), Matteo 26, 14-27,66

La passione del Signore

Mentre ancora egli parlava, ecco arrivare Giuda, uno dei Dodici, e con lui una grande folla con spade e bastoni, mandata dai capi dei sacerdoti e dagli anziani del popolo. Il traditore aveva dato loro un segno, dicendo: «Quello che bacerò, è lui; arrestatelo!». Subito si avvicinò a Gesù e disse: «Salve, Rabbì!». E lo baciò. E Gesù gli disse: «Amico, per questo sei qui!». Allora si fecero avanti, misero le mani addosso a Gesù e lo arrestarono. Ed ecco, uno di quelli che erano con Gesù impugnò la spada, la estrasse e colpì il servo del sommo sacerdote, staccandogli un orecchio. Allora Gesù gli disse: «Rimetti la tua spada al suo posto, perché tutti quelli che prendono la spada, di spada moriranno. O credi che io non possa pregare il Padre mio, che metterebbe subito a mia disposizione più di dodici legioni di angeli? Ma allora come si compirebbero le Scritture, secondo le quali così deve avvenire?»...

Nel racconto della passione di Gesù, l'evangelista Matteo, pur riprendendo la narrazione di Marco, oltre ad alcune aggiunte sue, accentua il contrasto tra il carattere violento degli eventi che portano Gesù alla morte e la libertà con la quale Gesù vive le ultime ore della sua esistenza.
Tutto ciò traspare soprattutto nei primi quadri del racconto: la cena pasquale, attentamente preparata, è segnata dalla consegna, da parte di Cristo, del suo corpo e del suo sangue, "versato per molti per il perdono dei peccati", mentre sullo sfondo si profilano il tradimento di Giuda, il futuro rinnegamento di Pietro e l'annunciato abbandono dei discepoli (Mt 26,14-35); nell'intensa preghiera al Getsèmani, Gesù, oppresso dalla tristezza e dall'angoscia, accetta di compiere la volontà del Padre, e dopo il bacio del traditore, "uno dei Dodici" chiamato fino all'ultimo "amico", si consegna a chi lo arresta ingiustamente, respinge la tentazione di ricorrere alla violenza, per difendersi, o di invocare l'aiuto del Padre, e accetta di prendere su di sé il male (Mt 26,36-56); infine, davanti al Sinedrio, per la prima volta in tutto il vangelo, afferma con chiarezza la sua identità di Messia e di Figlio di Dio, perché ormai non c'è più nessuna ambiguità possibile rispetto ad ogni attesa o immagine degli uomini, e così si espone all'accusa di bestemmia, mentre davanti al governatore romano, tace in un silenzio pieno di dignità; in mezzo alle successive consegne, prima ai sommi sacerdoti e poi a Pilato, si consumano il rinnegamento di Pietro e il tragico ravvedimento di Giuda, che si toglie la vita (Mt 26, 57 - 27,26).
Percorrendo lo svolgersi quasi concitato degli avvenimenti, fino alle scene finali dove c'è una sorta di "crescendo" nella sofferenza, nell'umiliazione e nel senso d'abbandono e di solitudine (la coronazione di spine con la derisione dei soldati romani, la terribile esecuzione della crocifissione, con il dileggio dei passanti, delle autorità giudaiche, e dei ladroni condannati con lui, la morte, dopo la preghiera a Dio e l'ultimo grido), nasce una domanda radicale: ma tutto questo cumulo di dolore e d'ingiustizia, che si abbatte su Gesù, "il Figlio amato", il Messia "umile e mite di cuore" è volontà del Padre? È il Padre che "vuole" la croce di Gesù?
Purtroppo, aver identificato, in modo diretto, la volontà del Padre a cui Cristo si consegna, con il supplizio della croce, ha creato, anche nella storia cristiana, un'immagine deforme di Dio, quasi fosse una divinità adirata, che ha bisogno del sacrificio del suo Figlio e dopo di lui, dei nostri sacrifici.
In realtà, se ascoltiamo bene il racconto della passione, nella luce di tutto l'annuncio di Gesù, non è così, ed occorre convertire una certa immagine della passione di Cristo, che insiste, in modo eccessivo e greve, sul dolore come espiazione dei peccati, e genera una sorda ribellione ad un "dio" che è proiezione di nostre immagini di potenza e di giustizia, un "dio" che è ben lontano dal "Padre del Signore nostro Gesù Cristo", un "dio" in-credibile e in-affidabile.
Il Padre non vuole la violenza crudele e disumana che si abbatte in quelle ore su Gesù, il giusto Figlio, come non vuole tutta la marea oscura di sofferenza e di male che, in tanti modi, accompagna la storia degli uomini; non è Dio ad aver inventato il supplizio orribile della croce, non è Dio ad avere condannato l'innocente messia d'Israele.
La volontà del Padre, che Gesù accetta di compiere, è vincere il male e la morte, è salvarci dalla legge della violenza che chiama violenza, nel suo Figlio che resta fedele a Dio e dà la suprema testimonianza della sua verità, consegnandosi a coloro che lo catturano e s'impadroniscono di lui.
Nella narrazione di Matteo c'è una serie impressionante di verbi che esprimono l'azione degli uomini, tutti verbi attivi, che dicono violenza e disprezzo, e sono un triste elenco che si rinnoverà sulle tante vittime innocenti della storia: catturare, far morire, consegnare/tradire, mettere le mani addosso, arrestare, testimoniare il falso, percuotere, schiaffeggiare, spogliare, intrecciare una corona di spine e porla sul capo, deridere, sputare addosso, percuotere, crocifiggere.
In totale contrasto c'è Gesù, che dopo aver agito nel suo ministero, facendo del bene a tutti (cfr. At 10,38), entra nell'ora della sua apparente inattività, e realizza la volontà del Padre, in quanto affida a lui se stesso e la sua causa, e trasforma un evento di nuda e crudele brutalità umana, in un gesto di libera ed amorosa consegna di sé, spezzando la catena del male e della morte, e rinunciando a difendersi: "Ora non fa più nulla.
Diviene ciò che noi facciamo di lui. Finita l'azione, comincia la passione. Il Cristo mite e umile si fa carico della nostra violenza che su di lui esaurisce la sua carica e si spegne. Infatti non risponde al male con il male, ma con il dono e il perdono" (S. Fausti).

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