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Uscire dalla parola “emergenza”

La pandemia ha posto in rilievo tutte le emergenze del paese: scuola, lavoro, sanità, povertà

Come più volte espresso la pandemia porta con sé tutta una serie di complicazioni, di effetti collaterali che inevitabilmente gettano ombre sul futuro e non si tratta solo di una questione sanitaria. La pandemia ci ha messo di fronte ad una realtà di miseria cresciuta a dismisura che richiede molto più che offrire interventi di emergenza.

È tempo infatti di smetterla di pensare ed esprimerci in termini di emergenza: su queste pagine abbiamo evidenziato quanto fatto da Caritas Diocesana in questi mesi e quanto si sta facendo, ma tali questioni non riguardano solo la Chiesa ed interpellano anche la pubblica amministrazione, interpellano tutti noi. Se c’è una lezione che il Covid ci ha impartito è proprio quella di non provvedere alle necessità in modo approssimativo, in modo emergenziale, sempre alla ricerca di qualcosa (risorse umane, economiche, spazi) che non si trova. C’è una parola che sintetizza il disastro provocato dalla pandemia, che ha evidenziato realtà permanenti: disuguaglianza!

Disuguaglianze che già si notano in quanto le fasce socio­economicamente più vulnerabili sono più esposte ai rischi legati alla salute e a quelli finanziari. Ed esiste anche un rischio legato al tema abitativo. Disuguaglianze di reddito e rischio legato all’occupazione. Già abbiamo scritto come non sono pochi coloro che hanno perduto lavori informali e altrettanti non hanno la possibilità del tanto chiacchierato smart­working (ad es: i lavoratori dell’industria, del commercio al dettaglio). Lo smart­working inoltre è un’opzione riservata per lo più a coloro che se lo possono permettere sia per tipo di lavoro, sia per condizioni di reddito favorevole. Alle disuguaglianze dell’occupazione si associano direttamente quelle abitative o legate alla realtà socio­economica dei quartieri e all’istruzione.

La didattica a distanza non è per tutti, non tutti sono in grado di accedere agli strumenti necessari e il cosiddetto divario digitale non è cosa da sottovalutare. Disuguaglianze di reddito e disuguaglianze urbane si aggravano quando pensiamo agli individui più emarginati e vulnerabili: migranti e richiedenti asilo, detenuti, senza dimora e, perché no, anziani e giovani colpiti dallo squilibrio intergenerazionale. Le mutazioni che stravolgono la realtà globale e locale non possono essere affrontate con metodi vecchi e stantii. Occorre ripensare la politica nella sua alta misura. Quale politica? Non certo quella dei metodi autoritari, di vertice o di partiti che hanno più poco da dire ma quella dell’ascolto e del dialogo. Non quella di delega in bianco ma quella della partecipazione. Non una politica di corto respiro, immediata ma di larghi orizzonti.

Non basta oggi cercare equilibri tra economia e salute. Occorre un approccio integrale che mescoli tutti gli ingredienti della vita sociale e superi la mentalità individualista. Le disuguaglianze richiamano il bisogno di giustizia sociale, oltre che economica ed ambientale, richiamano quel “tutto in relazione” che trova senso e sintesi nella persona, in ogni persona. Non è facile affrontare la sfida della buona politica ma dobbiamo pur cominciare, provare. Una buona politica non può prescindere da una buona “amicizia sociale”. Credo sia questo il primo passo che può essere fatto dai laici fedeli. Amicizia sociale che nelle nostre comunità (se non vogliono ridursi a comunità religiose private) dovrebbe essere assunta come paradigma per essere proposta di vita nuova nei nostri territori e condurci a quella “carità politica che presuppone di aver maturato un senso sociale che ci fa amare il bene comune” (Fratelli Tutti, 182). Come la carità supera la giustizia così la carità politica può superare gli attuali modelli del fare politica, per prendere decisioni che rispettino ogni persona e contrastino le disuguaglianze.

Lo stile di una nuova politica può cominciare da noi. “Avvicinarsi, esprimersi, ascoltarsi, guardarsi, conoscersi, provare a comprendersi, cercare punti di contatto, tutto questo si riassume nel verbo dialogare” (FT 198), evitando di scappare “rifugiandosi in mondi privati” (FT 199). Questo può essere fatto già ora. Poniamoci domande per ogni verbo: come avvicinarsi tra noi, con gli altri, alle questioni e ai bisogni del presente? come ascoltarsi, ascoltare, guardare, conoscere, comprendere? come traduciamo il verbo “dialogare” nelle relazioni quotidiane...?

Oggi connessioni digitali, presto relazioni di prossimità! Non lasciamoci condizionare dal clima pandemico, non rassegniamoci alla difficoltà di incontri in presenza. Provare a promuovere esercizi di amicizia sociale che hanno come obiettivo il prendersi cura delle disuguaglianze e iniziare a pensare un nuovo scenario può essere un primo passo. Forse non risolveremo le macro­questioni ma potremo almeno offrire un contributo al vivere equo e dignitoso nella nostra città. Francesco ci ricorda: “Ogni giorno ci viene offerta una nuova opportunità, una nuova tappa. Non dobbiamo aspettare tutto da coloro che ci governano, sarebbe infantile. Godiamo di uno spazio di corresponsabilità capace di avviare e generare nuovi processi e trasformazioni. Dobbiamo essere parte attiva nella riabilitazione e nel sostegno delle società ferite. Che altri continuino a pensare alla politica o all’economia per i loro giochi di potere. Alimentiamo ciò che è buono e mettiamoci al servizio del bene” (FT 77). “È possibile cominciare dal basso e caso per caso, lottare per ciò che è più concreto e locale, fino all’ultimo angolo della patria e del mondo, con la stessa cura che il viandante di Samaria ebbe per ogni piaga dell’uomo ferito. Cerchiamo gli altri e facciamoci carico della realtà che ci spetta. Però non facciamolo da soli, individualmente” (FT 78).

*Direttore Fondazione Auxilium

Fonte: Il Cittadino
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