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Coronavirus negli USA: i più abbandonati sono i poveri

Le attuali sommosse popolari celano la rabbia per le diseguaglianze anche in campo sanitario

Tutti per uno, nessuno per tutti. Su questo categorico dettato affonda le radici il modo di essere e di pensare degli anglosassoni che custodiscono con gran fervore ed estremo rigore l’ortodossia luterana. Il monaco tedesco, cinquecento anni fa, insegnò alla sua gente che la salvezza eterna se la procura il singolo individuo con un atto di fede da lui stesso attivato in sé grazie alla dimestichezza con la Bibbia, letta e meditata senza stancarsi.

Posta questa premessa, forse senza accorgersene, dava per scontato che l’analfabeta aveva scarse possibilità di salvarsi. Trasferito tale assioma dal campo religioso a quello sociale i popoli del nord Europa hanno fondato la loro convivenza sulla regola per la quale ognuno deve provvedere a se stesso; nessuno può ritenersi in debito con alcun altro per cui chi ne ha mangia e chi non ne ha s’aggiusti. Probabilmente questo modo di riassumere l’etica liberista è un po’ crudo ed esagerato.

Ma se osserviamo quello che sta succedendo nella America di Trump dobbiamo ammettere che le attuali sommosse popolari che la mettono a soqquadro, pur essendo state originate dalla uccisione di un afroamericano da parte di un poliziotto, non sono altro che l’esplosione di una rabbia da lungo tempo covata nell’animo di chi non accetta che uno Stato moderno, ricco ed evoluto in ogni campo del sapere, spenda migliaia di miliardi per mandare gli astronauti sul pianeta Marte o sulla Luna e non dedichi un pugno di dollari per provvedere alla difesa della salute dei suoi cittadini.

L’attuale epidemia del Coronavirus, in USA, ha fatto strage soprattutto tra la povera gente sprovvista di assicurazione contro le malattie che soltanto chi ha soldi se la può permettere. Gli afroamericani pare che si siano resi conto di non contare niente dal modo con cui è stato ucciso George Floyd ed hanno reagito anche per ricordare a chi governa il Paese più prospero di questo mondo che la grandezza di un popolo e di una nazione non può più essere misurata facendo riferimento alla potenza del suo esercito, alla fierezza delle sue polizie, alla monumentalità dei suoi centri urbani.

Un popolo è grande quando è riuscito a riscattare tutti i suoi cittadini dalla miseria, curando il male alle sue radici e cioè non concedendo tolleranza alla scarsa educazione dei piccoli che stanno crescendo, alla inefficienza della scuola e alla fragilità delle famiglie. Non si nasce malvagi. La miseria, l’emarginazione sociale, la precarietà del posto di lavoro generano mostri. Di mostri se ne deve fare a meno e giova a tutta la comunità sociale farsi carico delle spese occorrenti perché non ne nascano. Non si vive solo di pane al punto da lasciare che mente e cuore dei membri di un popolo civile non diano importanza ai valori dello spirito tra i quali primeggiano la fede in Dio e l’abitudine di distinguere il bene dal male. Inoltre uno Stato civile non può ritenersi estraneo al compito di provvedere che in seno alla sua gente siano evitate le eccessive stratificazioni di ceto fino a far convivere gli straricchi con i miserabili, quelli che hanno a disposizione il superfluo con quelli che mancano dell’estremo necessario. La rabbia che si diffonde tempestosa in Nord America ci avverte che non giova più dire “nessuno per tutti” bensì “tutti per chicchessia”.

Fonte: Il Cittadino
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