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Catechesi nell'arte - La risurrezione di Cristo

La rappresentazione artistica di ciò che non è descritto

Catechesi nell'arte - La risurrezione di Cristo

La vittoria del Risorto sulla morte è celebrata da molti, grandi artisti. Il primo simbolo della risurrezione? La croce. Una croce gloriosa, nuovo albero della vita, non a caso adorna di gemme primaverili e di fiori, oppure sormontata da una corona a indicare la vittoria sulla morte, come nei sarcofagi delle catacombe romane e in numerose testimonianze dell’arte bizantina. Sembra un paradosso, ma non lo è. Come rappresentare ciò che è proclamato ma non narrato, annunciato ma non descritto?
Alle rappresentazioni esplicite, gli artisti hanno preferito il simbolo o la metafora: la croce gloriosa o una tomba vuota. Con una sottolineatura che sarà più evidente nel corso dei secoli nelle varie testimonianze pittoriche: la luce, nella forma di un alone, di una mandorla o di un’aureola, il biancore che simboleggia la vita nuova. Nell’arte bizantina, a partire dall’VIII-IX secolo, la risurrezione è associata alla discesa di Gesù agli inferi. In veste bianca, il Risorto scende a liberare i progenitori dell’umanità Adamo ed Eva. Il Figlio si inoltra nelle profondità della terra, affronta le tenebre, per riportare alla luce l’uomo, ogni uomo, senza escludere i giusti dell’antichità che non lo hanno conosciuto. Da alcune brevi annotazioni del Nuovo Testamento (Atti degli apostoli 2,29-32; Prima lettera di Pietro di 3,18-20), i padri della Chiesa e gli autori spirituali ispirano così il modello che sarebbe divenuto canonico tra i cristiani d’Oriente: l’Anástasis, o Risurrezione, intesa come un tutt’uno con la discesa nell’Ade. Così la vediamo nelle icone più antiche, nei mosaici e negli affreschi. Come nella chiesa del Santo Salvatore in Chora, a Istanbul (1321). Qui, un Gesù danzante, ancora più maestoso perché inquadrato dal basso, afferra per mano Adamo ed Eva riportandoli alla vita. Sotto i suoi piedi, le porte degli inferi e gli strumenti della prigionia, chiavi, serrature, catenacci, ormai inutili, sprofondano nelle tenebre, dove resta soltanto il demonio, incatenato e impotente. Il tema sarà ripreso anche in Occidente, da Duccio (nella Maestà del duomo di Siena, XIV secolo) al Beato Angelico.

Giotto sceglie, invece, un’altra strada raffigurando nella stessa scena gli angeli seduti sul sepolcro vuoto, le guardie tramortite e l’incontro di Maria di Magdala con il Signore risorto (Giovanni 20,11-18). A Padova, nella Cappella degli Scrovegni (1303-1305), vediamo Maria protendersi verso Gesù che con la mano le fa segno di non avvicinarsi. Giotto, però, non si sofferma sul fraintendimento di Maria, che pensò di avere davanti a sé il custode del giardino e non Gesù risorto. Agli attrezzi da giardiniere sostituisce uno stendardo su cui è scritto: «Victor mortis». Ogni equivoco è dissipato: ecco il Signore della vita, vincitore della morte, che come gli angeli indossa una veste bianca con i bordi d’oro.
Il pittore fiammingo Dieric Bouts (1400 ca.-1475) ce ne offre un’interpretazione di intensa spiritualità in un dipinto ora al Norton Simon Museum di Pasadena (tempera su lino, 1455 ca.). Gesù, appena uscito dalla tomba, regge con la mano sinistra una croce alla quale è legato uno stendardo, rosso come il suo vestito. Con la destra accenna un gesto di benedizione, il volto lievemente malinconico: la morte è vinta, ma le piaghe subite non sono cancellate né nascoste. Un angelo vestito di bianco punta il dito indice verso il Risorto, nel gesto che l’arte riserva di solito a Giovanni il Battista: «Ecco l’Agnello di Dio». Due guardie giacciono tramortite, mentre una terza sembra proteggersi da quella visione. In un paesaggio appena rischiarato dalla luce dell’alba, si intravedono a destra, sullo sfondo, le tre donne che vanno al sepolcro con gli aromi.
Tra i grandi artisti del passato è Rembrandt, più di un secolo dopo Grünewald, il vero rivoluzionario: mostrare la figura di Cristo al momento della risurrezione. Dopo aver esitato e cambiato idea più volte, il maestro olandese alla fine osa l’inosabile. Nella tela del 1639 ora alla Alte Pinakothek di Monaco, tutto è giocato sull’opposizione tra luce e tenebre, ordine e caos, calma e panico. La pietra del sepolcro è scoperchiata da un angelo avvolto da un bagliore intenso. Energia incontenibile che terrorizza i soldati: uno tenta di proteggersi inutilmente con lo scudo, gli altri cadono in un fragore di ferraglie. Bisogna soffermarsi a lungo, prima di scorgere sulla destra la figura di Gesù ancora avvolta nel sudario. Rembrandt si rivela così il più moderno dei moderni.

Nella foto: Giotto, Resurrezione, Cappella degli Scrovegni

Fonte: Il Cittadino
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