La parola
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8a Domenica del Tempo Ordinario (anno A), Matteo 6, 24-34

Non preoccupatevi del domani

In quel tempo Gesù disse ai suoi discepoli: «Nessuno può servire due padroni, perché o odierà l’uno e amerà l’altro, oppure si affezionerà all’uno e disprezzerà l’altro. Non potete servire Dio e la ricchezza. Perciò io vi dico: non preoccupatevi per la vostra vita, di quello che mangerete o berrete, né per il vostro corpo, di quello che indosserete; la vita non vale forse più del cibo e il corpo più del vestito? Guardate gli uccelli del cielo: non séminano e non mietono, né raccolgono nei granai; eppure il Padre vostro celeste li nutre. Non valete forse più di loro? E chi di voi, per quanto si preoccupi, può allungare anche di poco la propria vita?

Nell'articolata costruzione del discorso del monte, dopo la sezione dedicata alle opere della pietà (elemosina- preghiera- digiuno: Mt 6,1-18), Gesù descrive e propone in modo di vivere il rapporto con le cose, caratterizzato da una vera libertà interiore, intesa come libertà dall'idolo dell'accumulo quando i beni ci sono (Mt 6,19-24), e come libertà dall'ansia che tutto divora quando i beni non sono ancora presenti (Mt 6,25-34); al centro della proposta di Cristo c'è una scelta radicale e, in qualche modo, inevitabile: di chi vogliamo essere? A chi vogliamo consegnare la nostra vita? Da che cosa facciamo dipendere la nostra consistenza? In fondo c'è un bivio, che impone di scegliere una strada sola, ed è il bivio davanti al quale più volte si è trovato il popolo d'Israele: è l'alternativa tra Dio e l'idolo, tra colui che è il vero Signore e Padre della vita, e tutto ciò che, creato dagli uomini, pretende di prendere il posto di Dio. Vi è una profonda differenza, perché servire Dio, il Padre, significa liberi, come figli amati, mentre servire gli idoli ci conduce ad essere schiavi delle cose o di noi stessi. Ora un idolo particolarmente affascinante e che spesso illude e delude il cuore degli uomini è proprio il possesso delle cose e dei beni, perseguito come fonte di sicurezza e di prestigio sociale: "Non potete servire Dio e la ricchezza". Qui è il cuore della scelta, e non a caso la parola "ricchezza" nel testo di Matteo è espressa con la parola "mammona", un termine ebraico che ha la stessa radice di "emunà" (fede), per indicare il carattere idolatrico della ricchezza, intesa come qualcosa in cui confidare e che tende a sostituire la fiducia nel Padre. Ma quando l'uomo vive per le cose, tutto teso al possesso e al perseguimento dei suoi progetti, alla fine vive male, perché, anche se cerca di non pensarci, avverte il limite invalicabile della morte, che sembra sbarrare il passo ad ogni suo desiderio di pienezza, e deve perciò buttarsi in un attivismo frenetico, sempre timoroso del futuro o tutto impegnato ad assicurarsi le migliori garanzie per gli anni che verranno. Così nell'esistenza quotidiana domina un affanno, e si diventa incapaci di vivere con intensità e gratitudine il presente, nell'affidamento al Dio che tutto vede e custodisce. Matteo in questo passaggio, più volte invita a non preoccuparsi, a non lasciarsi assorbire dall'affanno e dalla sollecitudine per la vita, per il cibo, per il vestito, per il domani, e il senso di questo richiamo insistente non è un invito a non lavorare, o a vivere in una sorta di attesa ingenua, sperando tutto ci provenga, quasi magicamente, da Dio, ma a non fare del lavoro un idolo, avendo come unico orizzonte del vivere la sicurezza del futuro o il possesso dei beni, e a vivere, positivamente, un affidamento sereno al Padre che sa ciò di cui abbiamo bisogno, e che come nutre gli uccelli del cielo, e veste i gigli del campo, è disposto a fare molto di più per noi "gente di poca fede". Nell'invito di Gesù a guardare gli uccelli del cielo e ad osservare come crescono i gigli del campo, si riflette il modo stesso con cui Cristo guardava il mondo, affermando in ogni cosa l'opera del Padre. È uno sguardo sulla vita comprensivo e lieto, che diviene sorgente di un impegno serio, ma non esagitato o pieno di pretesa e di presunzione, senza dimenticare il Padre, radice di ogni essere, e senza cancellare l'umana responsabilità: "S. Ignazio di Loyola consiglia di agire come se tutto dipendesse da noi, sapendo però che tutto dipende da Dio. È un atteggiamento che toglie l'ansia - tutto dipende da Dio! - e mette in libero gioco le nostre capacità - tutto dipende da noi!" (S. Fausti). Non a caso Gesù chiama i discepoli, tentati dall'affanno per le cose, "gente di poca fede", perché in questione è la fede, intesa come attitudine profonda di fiducia nel Padre, come ricerca prioritaria di Lui, del suo regno e della sua giustizia, perché ciò che vale, nello scorrere dei giorni, è l'amore verso il Padre, è la passione perché la sua sovranità si realizzi nella nostra esistenza e nella storia, e da questa quotidiana familiarità con il mistero di Dio, reso prossimo e vicino a noi in Cristo, sorge una libertà che permette di aderire al presente, senza essere continuamente ripiegati sul passato o timorosi davanti al futuro.
In effetti questo è un rischio molto frequente nell'esperienza degli uomini, che, quando smarriscono la coscienza della paternità infinita di Dio e della sua cura provvidente e quotidiana, finiscono per non vivere il momento presente, che, in fondo, è l'unico luogo dove è chiamata in causa la libertà, perché è qui ed ora che noi possiamo riconoscere il Padre e affidarci, istante dopo istante a Lui, è qui ed ora che la nostra fede vive, in un rapporto intenso con la realtà, e in un affidamento che vince ogni affanno eccessivo.

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