La parola
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14a Domenica Tempo ordinario (anno A), Matteo 11,25-30

Io sono mite e umile di cuore

In quel tempo Gesù disse: «Ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli. Sì, o Padre, perché così hai deciso nella tua benevolenza. Tutto è stato dato a me dal Padre mio; nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio vorrà rivelarlo. Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro. Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per la vostra vita...»

Riprendiamo la lettura continua del vangelo di Matteo da una pagina d'intensa bellezza, quasi un apice della rivelazione di Cristo, in evidente contrasto con la parte precedente del racconto, dove Gesù manifesta l'incomprensione della sua generazione (11,16-19) e pronuncia un forte rimprovero alle città incredule della Galilèa (11,20-24). Ora, invece, c'è una parola di lode, una proclamazione pubblica dell'opera del Padre, che ha nascosto i misteri del Regno "ai sapienti e ai dotti" e li ha rivelati "ai piccoli", anzi, secondo il significato proprio del termine usato da Matteo, "agli infanti". La preghiera di Cristo è forma della preghiera per noi, chiamati ad essere figli e a partecipare del rapporto del Figlio con il Padre, e siamo così rinviati a questa dimensione originale della preghiera, che non è solo domanda e supplica, ma è anche lode e ringraziamento; inoltre, il Dio a cui Gesù si rivolge è chiamato "Padre", e qui avvertiamo l'eco dell'intimità e della fiducia che Cristo vive con il suo "Abbà", e insieme "Signore del cielo e della terra", il Creatore trascendente che tutto regge con la sua potenza ed esercita un dominio totale, che abbraccia tutti gli esseri. Questi due appellativi divini mostrano come nel Dio vivo ci sia una sorta di "coincidenza degli opposti", perché egli è Padre e Signore, lontano e vicinissimo, santo e coinvolto con la nostra storia, giusto e misericordioso, forte e tenerissimo, ed è bene, nella vita di fede e nella nostra preghiera, custodire, il senso della maestà e della potenza infinita di Dio, e insieme il riconoscimento stupito e grato della sua paternità e del suo amore senza misura. Ora, il motivo della lode, da parte di Gesù, ci interessa, perché mette in luce l'unica strada per entrare in un rapporto vero con il Padre e per aprirsi alla novità e alla bellezza del Vangelo: infatti, il Padre, che tutto dona al Figlio e che vive con il Figlio una relazione di piena ed esclusiva conoscenza, desidera coinvolgere gli uomini in questo movimento di vita e d'amore, per questo ha mandato tra noi il Figlio, nella persona di Gesù, e attraverso l'umanità di Cristo, si fa conoscere a noi come Padre infinitamente amante. Ma c'è una condizione per vivere la grazia d'essere figli, ed è rinunciare alla nostra pretesa sapienza, alla presunzione della nostra scienza, e ritrovarci, davanti a Dio, per ciò che siamo, dei "piccoli" che tutto ricevono da Lui, degli "infanti" che non sanno parlare a Dio e di Dio, che balbettano di fronte al santo mistero, che ora si fa presente nel Figlio fatto uomo tra noi.
Non è un caso che nei vangeli i "sapienti", scribi, farisei, sommi sacerdoti, non si sono lasciati stupire dai gesti e dalle parole di Gesù, hanno faticato e resistito a vedere in lui i segni del Regno presente, hanno interpretato la sua figura come quella di un blasfemo, che metteva in pericolo le certezze d'Israele. Quante volte, nella storia, fino ad oggi, una certa superiorità intellettuale ha reso i cuori incapaci di vedere e di sorprendere la grazia di una testimonianza a Cristo, carica di fascino e di ragionevolezza, mentre nei semplici e nei "poveri di spirito" - che non significa i poco intelligenti o i creduloni - l'annuncio del Vangelo ha trovato una corrispondenza immediata, o, almeno, ha suscitato una curiosità, piena d'attenzione e di stima! Questi "piccoli", che sanno ritornare bambini, appunto "infanti", che, come i bambini, lasciano tutte le possibilità aperte e sono capaci di fidarsi, sono gli interlocutori di Cristo e tutti gli uomini, almeno in radice, nella struttura del loro cuore, possiedono questa capacità e questa apertura umile e intelligente: anzi, Gesù fa appello proprio all'umanità sincera e leale che è in tutti noi, e c'invita a venire a lui, proprio nella nostra realtà di uomini "stanchi e oppressi". Se i giudei a cui Cristo si rivolge, potevano avvertire come pesante il giogo della Legge, soprattutto dei tanti precetti che minuziosamente la applicavano alla vita, noi possiamo sperimentare altri "gioghi" che rendono greve la nostra esistenza: essere "piccoli" significa anche riconoscere la nostra condizione, le nostre "schiavitù", la stanchezza di un'esistenza che, talvolta, si trascina, senza senso, e poter così scoprire, nel legame con Cristo, un giogo diverso, "dolce", perché generato da un amore che ci precede e vissuto in un'affezione che è vera libertà.

Io sono mite e umile di cuore
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