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II lettura di domenica 23 ottobre - XXX domenica del Tempo Ordinario

La giustizia - Anno C

II lettura di domenica 23 ottobre - XXX domenica del Tempo Ordinario

Dalla seconda lettera di S. Paolo apostolo a Timòteo
2 Tm 4,6-8.16-18

Figlio mio, io sto già per essere versato in offerta ed è giunto il momento che io lasci questa vita. Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la corsa, ho conservato la fede. Ora mi resta soltanto la corona di giustizia che il Signore, il giudice giusto, mi consegnerà in quel giorno; non solo a me, ma anche a tutti coloro che hanno atteso con amore la sua manifestazione.
Nella mia prima difesa in tribunale nessuno mi ha assistito; tutti mi hanno abbandonato. Nei loro confronti, non se ne tenga conto. Il Signore però mi è stato vicino e mi ha dato forza, perché io potessi portare a compimento l’annuncio del Vangelo e tutte le genti lo ascoltassero: e così fui liberato dalla bocca del leone.
Il Signore mi libererà da ogni male e mi porterà in salvo nei cieli, nel suo regno; a lui la gloria nei secoli dei secoli. Amen.

È commovente il tono della conclusione della seconda lettera a Timoteo – l'ultimo scritto di Paolo che possediamo – vergata con il presentimento della imminente condanna a morte.
Della morte l’Apostolo parla come di un momento sacrificale: il suo “sangue sparso in libagione” , come nei sacrifici religiosi solitamente si spargevano sull'altare il vino o l'acqua o l'olio. Ha la convinzione che il suo martirio abbia il valore riassuntivo della dedizione di tutta la sua esistenza a Dio: sull'esempio di Cristo, egli infatti ha devoluto tutto se stesso, come un'offerta sull'altare della evangelizzazione. È “il momento di sciogliere le vele”, di smontare la tenda della dimora terrena o di levare l'ancora e salpare verso la Patria Eterna: un momento che tuttavia sembra giunto anche presto – “già” – considerato che Paolo è sulla sessantina e che la sua vita cristiana ed apostolica data da circa trent'anni. Facendo ancora una volta ricorso alle immagini dell'atleta e del guerriero, l'Apostolo dichiara la propria certezza di aver combattuta, tutta e bene, la sua battaglia; di esser giunto alla méta della sua corsa di maratoneta o di staffetta il cui “testimone” è l'Evangelo di Gesù Cristo e che ora sta per passare a Timoteo. Soprattutto è cosciente di aver conservato la fede: in-tegrità di dottrina e fedeltà all'impegno apostolico.
Sa che ciò gli è ascritto a merito dalla divina giustizia, dalla quale pertanto è sicuro di ricevere “la corona”, il premio della santità: premio che Dio riserva a tutti coloro che vivono preparandosi “con amore” al giudizio divino.
Il giudizio divino gli richiama quello umano, durante il quale, la prima volta, Paolo si è trovato a difendersi da solo, poiché gli altri – “tutti” – lo hanno “abbandonato”. A questo rammarico subentra tuttavia l'espressione del perdono: sull'esempio del Crocifisso. Anzi, a ben considerare, anche quella circostanza è stata provvidenziale: gli ha permesso di sperimentare una volta di più l'assistenza divina e di “portare a termine”, di completare l'annuncio del Vangelo ai pagani presenti al pro-cesso, provenienti da “tutti” i luoghi. Paolo non ha perso nep-pure quella occasione.
II Signore lo ha liberato quella volta dalla condanna a morte – “dalla bocca del leone” (espressione veterotestamentaria) – ed ora lo libererà per sempre, sia dalle avversità terrene che dal male morale, per il quale Paolo continua a sperimentare sempre l’umana fragilità. Finalmente sarà “salvo nel Regno eterno”, la cui gioia già pregusta e lo fa prorompere in un'ultima espressione di lode, sancita dall'intensità dell' “Amen”.

Fonte: Il Cittadino
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