La parola
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II Lettura di domenica 28 marzo 2021 - Cristo umiliò se stesso, per questo Dio lo esaltò.

Domenica delle Palme (Anno B)

Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Filippési
Fil 2,6-11

Cristo Gesù, pur essendo nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio l’essere come Dio, ma svuotò se stesso assumendo una condizione di servo, diventando simile agli uomini.
Dall’aspetto riconosciuto come uomo, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e a una morte di croce.
Per questo Dio lo esaltò e gli donò il nome che è al di sopra di ogni nome, perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra, e ogni lingua proclami:
«Gesù Cristo è Signore!», a gloria di Dio Padre.

A Paolo, in prigione a motivo della sua missione apostolica, è giunta una colletta tramite Epafrodito da parte della comunità cristia­na di Filippi  (l’antica Crenide o “città delle sorgenti”),  la prima città europea evangelizzata dall’Apostolo. Che Paolo abbia gradito l’aiuto dei Filippesi è eccezionale, fuori della norma, che egli si è imposto di non accettare mai alcunché, per “non essere di peso a nessuno”  (1a Ts 2,9; 2a Ts 3,8) e per conservare la propria libertà.

Scrive per esternare la propria gratitudine, ma poi dilata il di­scorso, in una esortazione alla perseveranza nella vita cristiana, in particolare alla fusione dei cuori e all’umiltà. E perché ciò sia possibile, Paolo sprona i Filippesi ad avere “gli stessi sentimenti di Cri­sto”.

Questi “sentimenti” – ossia il pensiero e l’agire di Gesù – vengo­no sintetizzati in un inno liturgico (che può essere stato stilato da Paolo per altra circostanza e poi inserito nella lettera ai Filippesi oppure – più probabilmente – si tratta di composizione di altro autore giudeo-cristiano, ripresa dall’Apostolo). Anche nell’attuale Liturgia delle Ore quest’inno viene recitato nei primi Vespri di ogni dome­nica ed in altre ricorrenze (per esempio: Natale, Venerdì San­to, Sabato Santo, festa del S. Cuore).

Un inno cristologico, in cui la personalità di Cristo viene considerata in tre momenti: prima dell’Incarnazione, nell’Incarnazione e nella glorificazione.

Prima dell’Incarnazione: Gesù, pur essendo Dio – quindi con la possibilità e il diritto di manifestare esteriormente le prerogative divi­ne –  “non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio”, cioè: non si è preoccupato di tenere per sé, di far valere, di usare a proprio vantaggio gli onori divini esteriori, che d’altra parte gli uomini si aspettano di constatare in un Dio resosi visibile. Cristo insomma, essendo Dio, avrebbe avuto diritto ad un incessante trionfo. Nell’Incarnazione, invece, egli rinuncia ad ogni prerogativa di gloria, assumendo una natura umana talmente umile, povera e soffe­rente, da risultare una “spogliazione”, uno svuotamento, un annichilimento (“ekenosen”, dice il testo greco) non della natura di­vina, ma di tutto ciò che di appariscente, di esaltante ci si aspettereb­be da Dio. Anzi Cristo ha assunto “la condizione di Servo”, di schiavo e quindi in atteggiamenti tali da farlo riconoscere esterna­mente con un uomo del tutto comune.

Cristo, pur avendo natura divina, con corrispondenti modi di manifestarsi gloriosamente, è “apparso in forma umana”, ha preferi­to le manifestazioni umili ed umilianti di questa. La sua “obbedienza”, alla natura umana è giunta sino a sottomettersi alla morte, anzi “alla morte di croce”, fine supremamente umiliante, ignominiosa, riservata ai malfattori, ai delinquenti.

La rinuncia ad ogni glorificazione terrena e il sottomettersi all’umiliazione, hanno raggiunto l’apice, in Cristo.

In considerazione di ciò – “per questo” – la susseguente glori­ficazione ultraterrena di Cristo non ha eguali: la dignità conseguente alla natura divina (“il nome” è tipica locuzione semitica, per connotare una natura, un modo di essere e quindi di agire) supera qualsiasi altra dignità, pertanto l’onore, che le è dovuto, dev’essere manifestato mediante l’universale riconoscimento della dipendenza da lui, inambito celeste, ambito terreno e ambito dell' oltretomba, del cosid­detto regno dei morti: “ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra”.

Ed allora ogni essere intelligente, capace di consapevolezza e di convinzione, capace di esprimersi (“ogni lingua”)è invitato a “pro­clamare che Gesù Cristo è il Signore”, cioè Dio, poiché “Signore” (“Kyrios”) nell’A.T. è titolo riservato a Jahvé. Culmine, poi, della “esaltazione” di Cristo è la “gloria di Dio Padre”, dato che Cristo e il Padre sono “una cosa sola” (Gv 14,9 ss; 17,21).

Le ultime battute dell’inno arieggiano Is 45,23: “dalla mia bocca esca la verità e non sarà revocata: davanti a me si piegherà ogni ginocchio, per me giu­rerà ogni lingua” ; un testo in cui si parla del Signore, il quale è Dio di tutto il mondo.

Il cristiano, dunque, come Cristo, non deve ricercare la gloria ter­rena, ma ambire quella eterna.

Fonte: Il Cittadino
II Lettura di domenica 28 marzo 2021 - Cristo umiliò se stesso, per questo Dio lo esaltò.
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