La parola
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32a Domenica del Tempo Ordinario (anno C), Luca 20,27-38

Dio non è dei morti, ma dei viventi

In quel tempo, si avvicinarono a Gesù alcuni sadducèi – i quali dicono che non c’è risurrezione – e gli posero questa domanda: «Maestro, Mosè ci ha prescritto: "Se muore il fratello di qualcuno che ha moglie, ma è senza figli, suo fratello prenda la moglie e dia una discendenza al proprio fratello". C’erano dunque sette fratelli: il primo, dopo aver preso moglie, morì senza figli. Allora la prese il secondo e poi il terzo e così tutti e sette morirono senza lasciare figli. Da ultimo morì anche la donna. La donna dunque, alla risurrezione, di chi sarà moglie? Poiché tutti e sette l’hanno avuta in moglie».

Ogni domenica, professando la nostra fede, noi confessiamo la risurrezione dei morti o la della carne, e forse queste parole rischiano di scivolare via, in fretta, senza nemmeno renderci conto dell'enormità di ciò che diciamo: in effetti, se c'è un tratto che distingue l'esistenza cristiana da altre forme di vita religiosa, è proprio la fede nel mistero della nostra personale risurrezione, una verità che, nel cammino d'Israele, si è affermata solo nei libri più recenti, e che ai tempi di Gesù era fieramente negata dalla corrente conservatrice dei sadducèi. Le obiezioni che alcuni di loro muovono al Maestro nel brano evangelico di questa domenica, accompagnano, in forma diversa, i primi passi dell'annuncio cristiano nell'ambiente ellenistico: pensiamo all'apostolo Paolo nel suo discorso all'areopago di Atene. Finchè illustra il tema del Dio ignoto che egli è venuto a rivelare, trova ascolto, ma appena evoca la risurrezione di Gesù, incontra subito una reazione di difesa: "Su questo ti ascolteremo un'altra volta".
Non diversamente accade oggi, quando dei cristiani intendono realmente testimoniare la loro fede nella risurrezione dei morti: non sono pochi i credenti che hanno idee confuse, che magari abbracciano la dottrina della reincarnazione, che in fondo ritengono tali verità sul destino ultimo dell'uomo qualcosa di molto generico e incerto. Il vangelo di oggi racchiude così una forte provocazione a prendere coscienza dello scandalo che rappresenta, agli occhi di una certa ragione, la fede cristiana: noi cristiani di fronte all'evidenza inoppugnabile della morte e del disfacimento del corpo, proclamiamo la gloria della risurrezione come trasfigurazione e ricreazione del nostro io umano intero, compresa la nostra dimensione corporea. Qui in fondo sta o cade la nostra fede, come aveva compreso Paolo: "Se non vi è risurrezione dei morti, neanche Cristo è risorto! Ma se Cristo non è risorto, vuota allora è la nostra predicazione, vuota anche la vostra fede" (1Cor 15,13-14). Si tratta di qualcosa di centrale nella fede, tanto che la Chiesa nella sua liturgia, nella sua vita continuamente afferma la realtà della risurrezione: a partire dalla risurrezione di Gesù, come primizia di un'umanità sottratta alla potenza della morte, e a partire dalla parola certa e limpida del Signore, i credenti in Cristo possono riconoscere che c'è un destino di vita piena ed eterna che riguarda tutto l'uomo e tutti gli uomini.
Certo noi balbettiamo quando cerchiamo d'immaginare o d'esprimere come avverrà la nostra risurrezione, e che cosa significa realmente la risurrezione della carne, ben sapendo che il corpo umano non è solo un insieme di muscoli, ossa e nervi, ma è molto di più, è fatto da tutto ciò che noi viviamo, sperimentiamo, è tutto percorso e abitato da emozioni, pulsioni, desideri, pensieri e decisioni. Dobbiamo umilmente accettare che ci mancano le parole e i riferimenti nell'esperienza per descrivere l'evento della risurrezione, che è molto di più di una rianimazione di un cadavere, è una nuova condizione di vita. Perciò non ha senso la domanda dei sadducèi a Gesù, perché immagina un ritorno alle condizioni della vita temporale, mentre Cristo allude ad una trasformazione: "quelli che sono giudicati degni della vita futura e della risurrezione dai morti non prendono né moglie né marito", non perché siano annullati i rapporti intercorsi nella vita terrena, ma perché anche questi sono posti in una nuova luce e l'istituzione matrimoniale non ha più senso perché non occorre più assicurare una discendenza nel futuro.
I risorti, come sarà manifesto in Cristo risuscitato, "non possono più morire", non sono più prigionieri della morte, anzi sono introdotti in una nuova familiarità con Dio, resi "uguali agli angeli" e soprattutto resi "figli di Dio", un Dio dei viventi, non dei morti, come già suggeriva il testo della Legge, unica autorità riconosciuta dai sadducèi, chiamando il Signore "il Dio di Abramo, il Dio d'Isacco e il Dio di Giacobbe". È questo Dio amante della vita, che si rivelerà pienamente nella Pasqua di Gesù: allora tutte le parole del Maestro, anche quelle rivolte ai sadducei, acquistano ancora più forza e splendore e nello stupore della fede, possiamo riconoscere il Dio di Gesù Cristo come il Dio della vita che non abbandona noi uomini alla morte.

Dio non è dei morti, ma dei viventi
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