La parola
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4ª domenica di Quaresima (anno A), Giovanni 9,1-41

Andò, si lavò e tornò che ci vedeva

In quel tempo, Gesù passando vide un uomo cieco dalla nascita; sputò per terra, fece del fango con la saliva, spalmò il fango sugli occhi del cieco e gli disse: «Va' a lavarti nella piscina di Sìloe», che significa Inviato. Quegli andò, si lavò e tornò che ci vedeva. Allora i vicini e quelli che lo avevano visto prima, perché era un mendicante, dicevano: «Non è lui quello che stava seduto a chiedere l'elemosina?». Alcuni dicevano: «È lui»; altri dicevano: «No, ma è uno che gli assomiglia». Ed egli diceva: «Sono io!». Condussero dai farisei quello che era stato cieco: era un sabato, il giorno in cui Gesù aveva fatto del fango e gli aveva aperto gli occhi. Anche i farisei dunque gli chiesero di nuovo come aveva acquistato la vista. Ed egli disse loro: «Mi ha messo del fango sugli occhi, mi sono lavato e ci vedo»...

Se nel dialogo con la donna samaritana, Gesù si rivela come sorgente di vita, nell'immagine dell'acqua viva che diventa in noi "sorgente di acqua che zampilla per la vita eterna" (Gv 4,14), il racconto giovanneo del cieco si apre con la solenne affermazione: "Finché io sono nel mondo, sono la luce del mondo" (Gv 9,5). Vita e luce sono due realtà connesse nell'esperienza e nel linguaggio simbolico, e fin dal prologo del quarto vangelo, sono riferite alla persona del Logos, l'eterna Parola personale di Dio, il suo Figlio unigenito: "In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini". Perfino nel modo d'esprimersi c'è questo legame tra la vita e la luce, tanto che l'atto della nascita è un venire alla luce e la morte è sempre associata all'idea dell'oscurità impenetrabile.
Inoltre, solo quando qualcosa è da noi conosciuto e non resta nelle tenebre dell'ignoto, entra davvero nell'orizzonte della nostra vita, e l'esistenza stessa, per essere gustata ed amata, chiede d'essere compresa nella luce della sua verità: quando vivere è semplicemente "essere gettati" nel flusso del tempo e delle circostanze, e consumare, giorno dopo giorno, quello che sperimentiamo, più o meno voluto e scelto da noi, non viviamo appieno, perché senza la luce di un significato che illumini e dia prospettiva a tutto, siamo come ciechi che camminano a tentoni. Così possiamo riconoscerci nel protagonista del segno operato da Gesù, perché nasciamo tutti ciechi, riguardo alle realtà decisive del nostro destino di creature umane, e siamo tutti mendicanti, che attendono, anche senza saperlo, qualcuno che ci liberi dalla nostre tenebre.
Ora, nel modo stesso con cui l'evangelista narra la guarigione e la successiva discussione con i farisei e i giudei, è descritto il cammino dall'oscurità alla luce piena: da una parte è nell'incontro con Cristo, che vede l'uomo cieco dalla nascita e prende iniziativa di guarirlo, che accade l'inatteso cambiamento, dall'altra c'è una sorta di itinerario che quest'uomo percorre, provocato dalle opposizioni e dagli interrogativi dei giudei, e che giunge a riconoscere in Gesù il Figlio dell'uomo, il Signore, in un gesto finale d'adorazione. Credere significa proprio vedere, uscire dalle tenebre, poter confessare l'identità di Gesù e in lui ritrovare la sorgente autentica della vita e della luce, e questo cammino di fede è un cammino di illuminazione, che ha il suo inizio nel gesto battesimale, in quella nascita dall'alto che ci fa uomini nuovi, ma si sviluppa attraverso l'inevitabile contraddizione del mondo. Non può essere casuale il realismo con cui Giovanni descrive l'accadere del segno, con le sue allusioni sacramentali: Gesù sputa per terra, fa del fango con la sua saliva, come in una nuova creazione, lo spalma (letteralmente: lo unge sopra gli occhi) sugli occhi ed invita il cieco ad andare a lavarsi nella piscina di Sìloe, e solo allora, dopo essersi lavato con l'acqua, l'uomo torna a vedere. La luce sorge in noi per il gesto gratuito di Cristo, ma a partire dal suo incontro con la nostra umanità che brancola nel buio, si apre l'itinerario battesimale, come processo d'illuminazione, nel quale si avanza per la semplicità che sa riconoscere il segno, chiamata a sostenere l'incomprensione di chi non vuole vedere. In effetti, nel racconto di Giovanni, è impressionante il realismo umile del cieco guarito, che a tutte le possibili obiezioni, risponde solo raccontando ciò che gli è accaduto: "Una cosa io so. Ero cieco e ora ci vedo". Nessuna argomentazione negativa può cancellare il cambiamento inatteso che quell'uomo ha vissuto, e questa è l'esperienza che siamo chiamati a vivere, nella misura in cui ci lasciamo illuminare e toccare dal Signore Gesù. A fronte di questa lealtà intelligente del cuore, sta l'irragionevole resistenza dei farisei che si condannano a non vedere, ad essere loro i ciechi inguaribili, come annuncia Gesù: "È per un giudizio che io sono venuto in questo mondo, perché coloro che non vedono, vedano e quelli che vedono, diventino ciechi" (Gv 9,39). Ora è il tempo di questo giudizio, non alla fine della storia e il teatro in cui si svolge è il cuore di ciascuno di noi, che possiamo decidere se aprirci alla luce di Cristo, imparando a guardare i segni della sua azione e a riconoscere in lui la luce che vince ogni tenebra.

Andò, si lavò e tornò che ci vedeva
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