La parola
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Dio ha mandato il Figlio perché il mondo si salvi per mezzo di lui

IV domenica di Quaresima (11 marzo 2018)

La lettura teologica della storia fa intravedere sempre la volontà salvifica di Dio, il quale lascia nulla di intentato per richiamare l’uomo ribelle.

Unico movente divino: l’amore. Per cui la salvezza è sempre ed esclusivamente grazia, dono gratuito, non commensurabile ad alcun merito di opera umana.

Questa, tuttavia, è predisposta dalla stessa benevolenza divina, per essere attuata a mantenimento della situazione di salvezza in cui l’uomo è innestato.

Cristo è l'autore tramite della salvezza: non giustiziere, giudice che condanna a morte, ma portatore di vita eterna, di comunione con Dio, tale da far sì che l’uomo possa compiere opere buone, non soltanto a livello naturale, ma anche soprannaturale.

 

Gesù è a colloquio con Nicodemo, un “notabile dei Giudei”, il quale è andato a cercarlo di notte. Dopo aver parlato della “nuova nascita” spirituale, anzi soprannaturale cui l’uomo è destinato, Gesù passa a parlare della sua opera redentrice. Un’opera che icasticamente era già stata simboleggiata ed annunciata all’epoca dell’Esodo, nel deserto, allorché Jahvé, per punire la mancanza di fiducia e la conseguente ribellione degli Israeliti aveva “mandato serpenti velenosi i quali mordevano la gente e un gran numero di Israeliti morì”; Mosè allora – seguendo l’ordine di Dio, al quale s’era rivolto per chiedere aiuto – aveva fuso in bronzo e posto su un palo, un simulacro di serpente, verso cui, volgendo lo sguardo, chi era stato morso da un serpente si salvava (Nm 21,4-9).

Il libro della Sapienza, commentando il fatto, dice che Dio si era proposto la “correzione” dei peccatori: “Infatti chi si volgeva a guardare il serpente di bronzo era salvato non da quello che vedeva, ma solo da Te [Dio], salvatore di tutti” (Sp 16,7).

Cristo non soltanto è segno di salvezza, ma ha la missione di donarla veramente: è lo scopo per cui egli, “Figlio dell' uomo”, secondo l’espressione messianica di Daniele (c.7) “bisogna che sia innalzato”,  sulla croce e poi nella gloria della risurrezione: due momenti che costituiscono l’opera salvifica del Redentore.

A questo punto il dialogo tra Nicodemo e Gesù si trasforma quasi naturalmente in monologo con uno “sfumato passaggio da un discorso di Gesù a un discorso cristologico su di lui” e questo “passaggio inavvertito da discorsi di Gesù a discorsi su Gesù è caratteristico del quarto Vangelo” (H. Strathmann).

Il discorso quindi, direttamente, è dell’evangelista piuttosto che di Gesù; sembra chiaro che “sia l’evangelista a parlare, ma è altrettanto chiaro che egli intreccia parole di Gesù, ritrovabili non solo nel suo Vangelo, ma, nella loro sostanza, anche presso i Sinottici. E’ come un processo di sublime ruminazione e di osmosi, comprensibile per il fatto che Giovanni scrive alla fine del I secolo, dopo aver meditato e vissuto per 70 anni il Vangelo” (S. Garofalo).

La spiegazione – “infatti” – dell' immolazione-glorificazione di Cristo risiede nell’amore di Dio, spinto sino al dono-sacrificio del “suo Figlio unigenito”.

Dio non vuole la “morte” spirituale, eterna, ma “la vita eterna” di quanti – come già gli Israeliti “nel deserto” – abbandonando la ribellione, “credono in lui”.

La riflessione si arricchisce: il Figlio di Dio non ha il compito di emettere sentenza di condanna (“giudicare” in senso peggiorativo, usato pure altre volte dall’evangelista) ma di offrire se stesso come tramite di salvezza. Unica condizione: la fede in lui, ossia l’affidarsi alla sua opera; per cui non può giovarsene “chi non crede”.

La negazione dell’azione condannatoria di Gesù “è rivolta all’idea giudaica, che attendeva sì il Messia, come salvatore del suo popolo, ma nella forma di una tremenda condanna che doveva colpire, oltre ai reietti del suo popolo, soprattutto il mondo dalle nazioni. Invece la missione del Cristo giovanneo è secondo l’intenzione di Dio (v. 16) la salvezza del mondo” (H. Strathmann).

La condanna è a carico  del “mondo” che si oppone a Dio, la parte del genere umano che non ha accolto “la luce” – il Figlio – perché impegolata nel male: infatti chi ama il male, “odia” la luce e la rifiuta, perché essa rende palese il male; chi invece ama e “opera la verità , cioè il bene, non teme la luce, ma anzi le va incontro, perché “appaia chiaramente” che il bene è partecipazione di Dio stesso, Sommo Bene, quindi che ogni opera buona non può che essere compiuta “in Dio”.

Il credente non intende pertanto vantarsi del bene fatto, ma gioisce nel constatare che esso è conseguenza della sua comunione con Dio.      

Anche nei documenti di Qùmram “operare la verità” indica la condotta pratica dell’uomo coerente con la fede.

Fonte: Il Cittadino
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