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Zero Dark Thirty

Zero Dark Thirty

“Zero Dark Thirty” è un’espressione che, nel gergo militare americano, identifica un’azione da compiere durante la notte. Ed è questo il termine che è stato usato anche per un recentissimo raid militare: quello che ha portato alla cattura e all’uccisione di Osama Bin Laden. Ecco perché Kathryn Bigelow ha scelto proprio questa espressione come titolo della sua nuova pellicola, che racconta proprio tutta l’azione d’intelligence, prima, e militare, poi, che, nell’arco di ben dieci anni, ha portato all’uccisione del terrorista più ricercato del mondo.
Sicuramente Bin Laden, colui che ha progettato e portato a termine l’attacco contro le Torri Gemelle a New York l’11 settembre 2001 è la personalità che più ha segnato la nostra storia recente: gli storici hanno addirittura sentenziato che da quella data è cambiato completamente il corso della storia dell’Occidente e che ci troviamo in un nuovo paradigma geopolitico d’instabilità totale e d’insicurezza planetaria. Fare un film, dunque, su Bin Laden significa tornare su una ferita ancora aperta e certo non rimarginabile e ripensare la propria storia recente. D’altronde il cinema è sempre stato uno strumento storiografico essenziale, uno specchio attraverso cui la società mette in scena se stessa e si ripensa continuamente, negoziando e rinegoziando i suoi significati.
La pellicola diretta dalla regista americana (a cui si deve, tra l’altro, il film “The Hurt Locker”, vincitore del Premio Oscar come miglior film qualche anno fa, prima volta nella storia di una donna regista premiata con la mitica statuetta con il racconto di un artificiere americano in Iraq) si basa su ricerche molto precise e dettagliate e cerca di essere una sorta di docu-film: realistico e, al tempo stesso, di finzione, il più veritiero possibile ma anche legato a una reinterpretazione immaginaria dei fatti. Il punto di vista attraverso cui noi spettatori siamo catapultati all’interno di questa caccia all’uomo durata un decennio è quello dell’agente della Cia che, con la sua costanza, testardaggine e col suo coraggio, ha permesso la cattura di Bin Laden. Un agente della Cia che è una donna e a cui nel film viene dato il nome fittizio di Maya. È tramite i suoi occhi che veniamo gettati nell’inferno del Medio Oriente, subito dopo l’attacco alle Torri Gemelle, nei campi di prigionia americani dove i metodi per interrogare i prigionieri sono quelli non convenzionali, rivelatisi, poi, come tali negli anni a seguire. È la sua determinazione che ci tiene incollati alla poltrona per le oltre due ore del film, nonostante sembri ogni volta che la pista di ricerca intrapresa non porti da nessuna parte. È attraverso la sua solitudine che sentiamo la paura, lo smarrimento, il vuoto di un’intera nazione che è stata colpita al cuore e che vuole, però, rialzarsi subito. Un ritratto dolente e tragico che ha il pregio di non diventare mai né troppo melenso (altrimenti perderebbe di profondità) né troppo documentaristico (altrimenti non sarebbe più cinema ma semplicemente documentario, magari anche un po’ noioso).
La Bigelow si dimostra ancora una volta una regista capace, soprattutto in pellicole che, nel passato, sembravano appannaggio solo del genere maschile, e trova in Jessica Chastain un’interprete eccezionale, misurata e intensa, mai sopra le righe. Non a caso il film è candidato a ben 5 Oscar e chissà se la Bigelow bisserà il Premio Oscar di “The Hurt Locker”, raggiungendo così un altro record: quello di essere la prima donna regista ad aver ottenuto nel giro di pochi anni la statuetta più ambita del mondo cinematografico.
 

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