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Torno da mia madre

Torno da mia madre

Stéphanie ha 40 anni, è divorziata e ha perso il lavoro. Si trova così costretta a tornare a vivere da sua madre Jacqueline, che la accoglie a braccia aperte nel proprio appartamento. La convivenza non è facile e le strambe abitudini della madre si rivelano il pretesto per nascondere un piccante segreto. Quando tutti i fratelli si riuniscono per cena, ecco che la tavola imbandita si trasforma in un campo di battaglia dove invidie e regolamenti di conti trovano spazio tra i gustosi piatti preparati da Jacqueline.
I sociologi l’hanno chiamata generazione boomerang. Sono i quarantenni che tornano indietro, in famiglia, dopo aver provato la vita da soli, in qualche caso una (momentanea) stabilità professionale, salvo essere respinti con perdite dalla crisi economica o coniugale. Alcuni con la valigia mai disfatta invocando una breve pausa rigenerativa, altri con rassegnazione. Un fenomeno che non è sfuggito all’occhio attento del cinema francese, che già ci aveva già divertito con gli eterni adolescenti che non volevano lasciare le comodità famigliari come in Tanguy. In “Torno da mia madre” di Eric Lavaine la protagonista Stéphanie non sceglie di tornare a casa, bensì è costretta dalle circostanze e sarebbe ben lieta di non approfittare delle fin troppo asfissianti attenzioni della mamma (naturalmente declinate in maniera comica nel film). Dunque, non un eterno adolescente che non vuole crescere, bensì una donna più o meno matura che vorrebbe tornare alla sua vita professionale e amorosa. “Torno da mia madre”, però, non è e non vuole essere un trattato sociologico su un fenomeno che coinvolge oltre 400 mila francesi, e ancor più italiani e europei del sud. Né tanto meno un film di denuncia politica alla Ken Loach. Bensì è un ritratto divertente, scritto con garbo ed ironia, di un nucleo familiare e delle sue dinamiche interne, sempre attuali e soprattutto sempre uguali per tutti. Gli affetti, ma anche le invidie, le gelosie, i rancori, i non detti: tutto quello che si agita al di sotto della superficie e che rende ogni famiglia unica e universale al tempo stesso. In questo microcosmo è l’anziana madre l’unica a vivere la vita con leggerezza e a godersi una vita amorosa soddisfacente. Il paradosso è che deve mantenerla segreta, per paura della reazione delle figlie e del figlio, visto anche il peso delle convenzioni della nostra società, che ha la tendenza a rifiutare ai genitori in là con gli anni una vita d’amore, anche dopo la morte del coniuge.
Nonostante l’età, è sempre la madre la più aperta e moderna, barcamenandosi in una doppia vita e rivendicando felicità e leggerezza come priorità. I figli, al contrario, sembrano incapaci di godersi le loro vite e sembrano cristallizzati in un’eterna adolescenza, negando intimità e condivisione a un rapporto che con gli anni non è evoluto. Il regista Eric Lavaine si affida soprattutto alle due protagoniste per puntellare il film di momenti divertenti, come il tentativo disperato della figlia di insegnare alla madre a usare email e social network o il momento della colazione in cui la madre impone alla figlia una determinata “ritualità” nel mangiare il pane col burro.

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