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The most beautiful day

The most beautiful day

Un pianista affascinato da Mozart, Andi, e un ladruncolo scansafatiche, Benno, sono due giovani malati terminali, ricoverati in una clinica tedesca e in bilico tra la vita e la morte. Al primo, in attesa di trapianto, è stata diagnosticata da tempo una fibrosi polmonare, per la quale è sottoposto a ossigenazione continua; al secondo, un tumore al cervello, che provoca continui svenimenti. Stanchi di aspettare che il loro destino si compia, sfidando le rispettive patologie che li tengono inchiodati a letto, i due scappano dalla clinica e, racimolato il denaro necessario, si mettono in viaggio verso l’Africa, alla ricerca dell’ultimo e più bel giorno delle loro brevi esistenze…

Campione d’incassi in Germania, The most beautiful day è la più recente testimonianza in immagini di un genere ben frequentato dal cinema (non solo di produzione americana), il cancer movie, nel quale non di rado la trattazione della malattia trova nell’ironia una preziosa e non convenzionale chiave di lettura. Sulla scia dunque di film come Love is all you need, Allacciate le cinture e soprattutto Truman-Un vero amico è per sempre, la pellicola di Florian David Fitz (anche autore della sceneggiatura e interprete nei panni di Benno) si muove lungo le coordinate della commedia, trasformandosi in un’avventura picaresca, facendo ricorso a ripetute gag, non sempre di grana sottile, e utilizzando tutti gli agganci emotivi disponibili, visivi e sonori, per suggestionare lo spettatore: dai paesaggi mozzafiato del Sudafrica a una colonna sonora evocativa e nostalgica, da una famiglia abbandonata per immaturità relazionale a una dimensione social che cavalca l’onda della comunicazione virale on line.

Come il connazionale Vi presento Toni Erdmann, anche The most beautiful day tratta con leggerezza problematiche profonde. Andi e Benno fuggono dal centro medico che li ospita perché non vogliono identificarsi con la malattia, ricercano nella propria libertà l’affermazione di una dignità sempre e comunque necessaria, ritrovano nel rifiuto delle cure e della somministrazione medicinale uno status di persona prima ancora che di paziente condannato al decesso. Ma rispetto al film di Maren Ade (e rispetto anche a Truman-Un vero amico è per sempre, a cui più si avvicina), il lungometraggio di Florian David Fitz non riesce a scavare adeguatamente nel sottosuolo di esistenze ferite, rifugiandosi con eccessivo semplicismo in un road movie in stile buddy-buddy, con due caratteri contrapposti destinati, come da tradizione, a scontrarsi e a incontrarsi.

La “malattia” di cui soffre The most beautiful day, in altre parole, pur se attenuata da momenti di sano divertimento e di contagiosa amicizia tra i due protagonisti, è la sua scarsa credibilità in termini di sofferenza fisica e psicologica, messa da parte fin da subito a favore di una allegra, disincantata spensieratezza. Che non scade mai in patetismi ricattatori, ma che si rivela, nell’intelaiatura complessiva del film, balsamo generico piuttosto che farmaco rigenerante.

The most beautiful day
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