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Quello che so di lei

Quello che so di lei

Claire è un’ostetrica con un talento naturale nel mettere al mondo i bimbi, appassionata sul lavoro e rigorosa nella vita, madre di un figlio, studente in medicina, appena andato a stare per conto suo. Un giorno riceve una strana telefonata. Una voce riemerge dal passato: Béatrice, l’eccentrica e frivola amante del suo compianto padre, vuole rivederla, trent’anni dopo essere scomparsa nel nulla. Agli antipodi in tutti i sensi, la coscienziosa e misurata Claire e lo spirito libero Béatrice impareranno pian piano ad accettarsi…

C’è un dialogo, in Quello che so di lei, che spiega il senso profondo del film di Martin Provost. Ed è quello in cui Claire, dopo la chiusura della clinica in cui ha esercitato fino a quel momento la sua professione, proponendosi ad un ospedale moderno e iperefficiente viene informata che il termine sage femme (“ostetrica” in francese) sarà rimpiazzato dal più asettico “tecnico delle nascite”. Una sfumatura etimologica apparentemente senza importanza, ma che in Quello che so di lei (il cui titolo originale è appunto Sage femme) rivela non solo il profilo caratteriale della levatrice, ma anche le intenzioni socio-filosofiche del film: il “dietrofront” della donna, che non è disposta ad accettare che un piccolo reparto maternità chiuda i battenti per lasciare il posto a una “fabbrica di neonati” in cui la logica del profitto intende sostituire il fattore umano, è infatti esplicativo dello spirito che illumina la pellicola di Provost, attenta alle fragili imperfezioni della vita e non alle granitiche certezze dell’esistenza.

L’eccellente interpretazione di Catherine Frot imprime a Claire il tratto di una donna dai modi gentili ma auto-isolata nella sua condotta, ancorata a principi e valori ai quali si rifiuta di abdicare, indossando il camicie rosa tra le partorienti così come stretta nel suo impermeabile beige tra le vie della città. Quello che so di lei è innanzitutto un omaggio in immagini a tutte quelle donne che lavorano nell’anonimato, dedicando il loro impegno agli altri senza aspettarsi nulla in cambio. E al contempo, portando Claire a farsi “contagiare” sempre più dall’amara leggerezza della ex compagna del padre, Béatrice (un’intensa Catherine Deneuve), il film di Provost si fa testimonianza coinvolgente di come si possa (e si debba) ritrovare il senso di sé accettando inadeguatezze e irrequietezze, modificando il proprio approccio verso gli altri.

Sofferto e intimamente doloroso, ma pervaso da tracce di sottile ironia, osservato interamente da una prospettiva femminile e attraversato da un’ombra che arriva a farsi luce, Quello che so di lei è tutto giocato sulla coniugazione degli opposti, su un’impalcatura narrativa fondata su antinomie dichiarate: il rimbalzo continuo tra l’inizio dell’avventura terrena (i neonati appena partoriti) e la sua prossima fine (la malattia di Béatrice), la necessità, per le due donne, di colmare un vuoto nelle reciproche vite (Claire ritrovando in Béatrice una seconda madre, Béatrice identificando in Claire la figlia che non ha mai avuto). Così, seppure sfiorato dalla morte, il film di Provost pulsa di vita piena. In un’ideale trasmissione generazionale di saperi e piaceri. E in un’adesione alla caducità delle cose umane che si fa compassione per chi è senza difese.

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