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L'uomo che vide l'infinito

Nel cinema americano degli anni Quaranta, durante e dopo la guerra mondiale, un genere riscuoteva un grande successo: era quello del film autobiografico.

Gli storici del cinema convengono nell’imputare la fortuna di questo genere alla delicata situazione sociale, culturale, politica ed economica degli Stati Uniti durante la guerra.

L'uomo che vide l'infinito

Nel cinema americano degli anni Quaranta, durante e dopo la guerra mondiale, un genere riscuoteva un grande successo: era quello del film autobiografico.

Gli storici del cinema convengono nell’imputare la fortuna di questo genere alla delicata situazione sociale, culturale, politica ed economica degli Stati Uniti durante la guerra.

“L’uomo che vide l’infinito” appartiene proprio a questo filone: la storia di un personaggio eccezionale, un giovane indiano che nei primi del Novecento, senza avere nessun tipo di preparazione accademica, darà vita a teorie che sono diventate fondamentali nello studio della matematica.

Tratto dal libro omonimo, la pellicola non è solo un biopic su questo giovane matematico, ma è anche la storia di un colono che per la sua origine dovrà affrontare difficoltà di ogni tipo per essere creduto e sopravvivere.

L’India era, infatti, ancora una delle colonie del grande Impero Britannico.

Srinivasa Ramanujan lascia Madras, la bella neosposa e la madre per recarsi a Cambridge, su invito al Trinity College dell’illustre matematico inglese G.H. Hardy, al quale aveva inviato le sue formule innovative sui numeri primi.

Inizia così un rapporto di dialogo scientifico stridente a causa del l’istintività dell’indiano, che non ha una metodologia accademica per dimostrare la credibilità dei suoi calcoli e delle conseguenze, mentre Hardy, uomo moderno e pacifista, antiaccademico e non conforme alla società del tempo, disincantato e ateo è esattamente il contrario e pretende dal genio, che ha riconosciuto essergli di fronte, la dimostrazione delle sue formule.

Nel cinema la matematica può diventare “grande bellezza”, come enuncia in didascalia Bertrand Russel, grande amico di Hardy, all’inizio del film e in effetti la pellicola fa apprezzare una materia di per sé ostica con una storia che ha un grande merito, quello di riconciliare scienza e fede grazie alle parole del suo protagonista: “Un’equazione non ha alcun significato per me, se non esprime un pensiero di Dio”.

Paola Dalla Torre

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