La parola
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Chi rimane in me e io in lui porta molto frutto

V domenica di Pasqua (29 aprile 2018)

La testimonianza del seguace di Gesù fa esperienza di accoglimento sereno, pacifico, ma anche e ripetutamente di opposizione e addirittura di persecuzione. E’ fondamentale che non sia testimonianza soltanto di parole, ma si traduca in fatti, soprattutto per quanto attiene specificamente all’amore fraterno. Senza scoraggiarsi perle inevitabili negatività che la propria retta coscienza avvertisse: Dio è più grande del nostro cuore. Ma l’efficacia, la fruttuosità della testimonianza, come della vita personale, è data unicamente dall’essere uniti vitalmente a Cristo, vera vite.

È la sera dell' Ultima Cena. Mentre il pasto si sta concludendo Gesù inizia un lungo ed articolato discorso, a metà del quale invita gli Apostoli: “alzatevi, ardiamo via di qui”. Il suo monologo prosegue sino a che giungono al Getsemani. Non è improbabile che il gruppetto, proveniente dal Cenacolo, abbia attraversato il cortile del tempio, essendo le porte aperte anche di notte per le festività pasquali. Sugli stipiti della grande porta interna, Erode vi aveva fatto sistemare grandi sculture raffiguranti viti con due grappoli d’uva alti quanto un uomo, tutti in oro, come riferiscono Giuseppe Flavio (Bell. Jud. V, 210; Antiq. Jud. V, 395) e Tacito (Hist. V, 5). In tal caso le parole di Gesù – “io sono la vera vite” – hanno un addentellato immediato per gli Apostoli. Ma essi hanno certamente più in mente che sovente Israele, nell’Antico Testamento, è stato paragonato alla “vigna” di cui Dio si prende premura, ma che talora non ha corrisposto alle sue attenzioni (Is 5,1; Gr 2,21; Ez 15,1-6;19,10-14; Sl 80,9-13).

Gesù infatti ricapitola in sé il nuovo Israele: è “vera” vite, non soltanto perché reale, ma perché rispondente al progetto e alle cure divine. “Il Padre è il vignaiolo”, il quale presiede allo sviluppo della vite e alla sua fecondità, con attenzione ad sogni tralcio: il tralcio improduttivo viene tranciato, perché inutile, non “vero”, fuori posto nella “vite vera”; il tralcio fecondo viene potato, mondato e il gesto richiama la sofferenza che vi è insita – perché “porti più frutto”. Il padre, giustamente, vuole il massimo rendimento. Ma Gesù rassicura gli Apostoli: “Voi siete già mondi”, purificati, mediante potatura di ciò che è inutile o nocivo. E ciò è effetto dell’accoglimento della sua parola, cioè di lui, giacché la parola è espressione del pensiero e della volontà di una persona e d’altra parte la “parola annunziata” da Gesù ha per oggetto lui stesso, anzi la Parola è lui. Accogliere la parola di Gesù è accogliere la purificazione che consente di rimanere nella vite vera, che è purezza assoluta. Più accoratamente che imperativamente Gesù poi ripete: “rimanete in me” cosicché io possa restare in voi. Non basta essere nati nella vite, occorre rimanerci – e lasciarsi lavorare, lasciarsi mondare dal vignaiolo – per poter dar frutto, “molto frutto”. La permanenza in Gesù vite- vera è talmente indispensabile, in-sostituibile, da costituire ragione di vita e di fecondità spirituale. Gesù è esclusivo, assolutizzante: “Senza di me potete far nulla”. Anzi chi “non rimane”, viene gettato via e poi bruciato. E’ possibile intravedere un accenno escatologico al giudizio e alla sorte di chi non ha voluto rimanere in Cristo. Chi rimane in Gesù si alimenta delle sue parole ed allora ogni ri-chiesta, fondata sulle sue parole e vitalizzata dalla sua linfa, non può che venir esaudita. Così si “porta molto frutto” e si “diventa discepoli” di Gesù: con un inserimento vitale, permanente ed esclusivizzante, non con una adesione semplicemente esterna, epidermica, formale. Chi è inserito nella vite partecipa della vita e dello scopo della vite: la glorificazione del Padre. Splendida, suprema prospettiva di Gesù.

Fonte: Il Cittadino
Chi rimane in me e io in lui porta molto frutto
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