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The place

The place

Un misterioso uomo siede sempre allo stesso tavolo al fondo di un bar, dal mattino alla sera, intento a prendere appunti su un grosso quaderno di pelle nera e pronto a esaudire ogni desiderio di abituali visitatori in cambio di compiti da far loro svolgere, talvolta proibitivi sul piano pratico, spesso moralmente aberranti. Fino a che punto questi individui saranno disposti a spingersi per veder realizzati i loro desideri?

Un perno narrativo (il patto mefistofelico) di evidente derivazione faustiana. Un doloroso, variegato cahier de doléance (le sofferenze che spingono a desideri inconfessabili) ad incastro progressivo. Il caos esistenziale (il “diritto alla felicità” della società contemporanea) racchiuso in un metaforico (anti)purgatorio, al cospetto di una volontà superiore.

Non c’è dubbio che The Place, il nuovo film di Paolo Genovese, ispirato alla serie tv americana The Booth at the End, sia alimentato da un’ambiziosa corrente filosofico-antropologica. I nove individui che, alternandosi in un continuo via vai, chiedono aiuto al loro misterioso interlocutore, sedendogli di fronte, sono anime fragili, che The Place vorrebbe mettere a nudo nelle loro carenze e ossessioni: dal padre con bambino malato di cancro al meccanico invaghito di una starlette, dal poliziotto fallito all’anziana che chiede di far regredire l’Alzheimer del marito, dalla giovane suora che vorrebbe ritrovare Dio al cieco che vorrebbe ritrovare la vista, tutti (compresi una moglie che intende far ingelosire il marito, una ragazza che aspira alla bellezza assoluta e il figlio delinquente del poliziotto) accettano di sedersi su una sedia vuota che si fa sede di verifica etica e morale.

Il problema di The Place, però, è nell’artificialità della messa in scena, che fa ristagnare il film in una “bolla” che ingloba, facendoli evaporare, le alte intenzioni e gli estenuanti dialoghi. Un lungometraggio “atono”, quello di Genovese, che autoconfinandosi nella rigidità del campo/controcampo e nella ripetitività delle inquadrature esterne al bar, in una ciclica reiterazione dello stesso schema, si imprigiona in una staticità logistica e diegetica certamente voluta ma davvero sterile nella sua programmaticità. Scivolando solamente sulle ferite intime che introduce, lasciandole sempre lontane dagli occhi dello spettatore anziché penetrarvi dentro, come sarebbe invece necessario, The Place allinea senza un vero perché perfidie e arrendevolezze, sarcasmi e disincanti, riducendo la sua assurda giostra degli affanni in un esercizio di pura campionatura delle debolezze umane.

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